antropologia delle fave
“Si casca bene a parlar di fave..” scrissi qualche giorno fa in un commento a supporto della ricetta postata dal mio socio. Ed infatti ritengo possibile "un’antropologia delle fave” per tentare una ricucitura di fondo a livello storico ma, soprattutto, per riflettere in una prospettiva antropologico-alimentare, su quelli che sono e sono stati i complessi significati simbolici che da sempre ci legano al cibo e alla sua preparazione. Se oggi parliamo e pensiamo “sul gusto”, riscoprendo così i prodotti territoriali e difendendo una economia agricola “contadina” poco o per niente legata alle logiche di mercato globale-industriale, quelle cioè che già propinano e prospettano un appiattimento culturale in materia alimentare e confondono così lo sviluppo con la crescita a danno della qualità, dobbiamo e possiamo difendere quel gusto conoscendone (a misura di strumento culturale) la storia, i nessi e connessi simbolici, il rapporto con l’uomo, riscoprendo il ruolo che il cibo, da sempre, ricopre nella nostra esistenza. Dunque le fave…: originarie del bacino del mediterraneo e del vicino Oriente, erano esse oggetto di un forte tabù da parte della casta sacerdotale egizia e della scuola pitagorica greca. Venivano infatti associate, come tutti i legumi, al mondo dei morti e alle pratiche esoteriche. L’unione dei due cotiledoni (organo vegetale embrionale delle piante superiori -gimnosperme e angiosperme - che provvede al nutrimento della piantina nelle fasi immediatamente successive alla germinazione del seme, attraverso il rilascio delle sostanze nutritive in esso immagazzinate o lo svolgimento della fotosintesi) all’interno dell’unico involucro suggeriva il concetto della complementarietà tra la vita esterna (essoterica) e la vita nascosta (esoterica), la continuità tra vita e morte. Orfici e Pitagorici elevarono il vegetarianesimo a modello alimentare perfetto per conseguire una condizione superumana. E sempre parlando di fave, occorrerà sapere che per i pitagorici le interdizioni alimentari si estendevano anche ad alcuni vegetali: le fave erano infatti considerate un rifugio delle anime dei morti. La fava diventò quindi tabù alimentare per Pitagora. Egli creò la sua scuola a Crotone, in Calabria, dove era ed è diffuso il favismo, una sindrome emolitica acuta connessa con un ereditario deficit, nei globuli rossi, di un particolare enzima che si manifesta dopo ingestione da fava. E’ chiaro che i precetti alimentari dei pitagorici rispondevano (per altro correttamente) ai contenuti dottrinali etico-mistici della scuola. Sin dall’antichità i legumi (per l’elevato valore energetico e la capacità di resistere – essiccati – a lunghi periodi di conservazione) venivano consumati sia crudi (fave e lupini) sia cotti, da soli, conditi con aceto o, come consigliava Catone, mischiati in rustiche minestre (pulmentaria) assieme al grano, al farro e all’orzo. Dalla farina di fave, poi, si ricavava il maccus, una sorta di polenta.
Dopo il XIII secolo, con la nascita dei primi ceti urbani, le fave, con gli altri legumi, trovarono posto sui banchi dei mercati cittadini. E fu questo il periodo di maggiore diffusione della fava, considerata fino al XV secolo il miglior legume per il suo alto rendimento. Scomparsa nell’800 e non apprezzata dalla gastronomia del XIX e del XX secolo, fu riconsiderata dopo il 1970 quando, nella prospettiva di rilancio di una alimentazione povera, a sostegno della dieta mediterranea, si verificò una ripresa del consumo di legumi (www.pbmstoria.it). E occorre sapere che il movimento Slowfood, al quale ci sentiamo di aderire per etica ed intenti, ha fatto sorgere dei Presìdi che “sostengono le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzando territori, recuperando mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvando dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta (www.slowfood.it)”. Per ciò che riguarda le fave, sono state poste a tutela la “Fava di Carpino (Puglia) e la Fava Larga di Leonforte (Sicilia).
Ma veniamo (o ritorniamo) al simbolico. Il rapporto dell’uomo con il cibo non è mai solo la soddisfazione di un bisogno. Attorno al cibo si sviluppano segnali che lo trasformano, si collegano simbologie, consuetudini e riti. Si associano al cibo comportamenti e scelte che rispondono a bisogni sovrastrutturali. Non a caso un atteggiamento dicotomico è presto individuabile nell’antichità. Da un lato c’era chi mangiava “a sbafo” alimenti di qualsiasi ordine, dall’altro troviamo nei santi e negli asceti il rifiuto della condizione umana per elevarsi alla comunicazione divina, espletato attraverso il digiuno. Ed è facile trovare un forte nesso con quelle che oggi consideriamo patologie (come l’anoressia) in questo atteggiamento in cui il “disturbo” diviene un modo per elevarsi al rango di Dio. Il digiuno rompe i confini fisici imposti dal corpo. Superare i limiti del corpo e rinunciare, quindi, ad essere mortali, offre la possibilità, l’illusione, di diventare immortali. Tutto questo comporta ovviamente una rottura con i rituali che accompagnano l’alimentazione. “Un alone di santità ha sempre circondato il digiuno, ma anche la fame smodata. Ad un polo troviamo la bulimia, la cui traduzione letterale è “fame da bue”. Al polo opposto troviamo il digiuno, avvolto di valenze positive, escludendo ovviamente la prospettiva patologica in cui anche la medicina antica lo collocava in particolari casi ben documentati, tanto da Ippocrate che da Galeno (Artusi, a.a. 1991-1992)”.
Quello su cui dobbiamo riflettere è il valore e la diffusione di certi messaggi. Nella nostra epoca, in cui l’esplosione demografica, lo sviluppo agricolo-industriale e scientifico, la diffusione dei mass media dovrebbero suggerire e sostenere corretti e validi programmi di educazione alimentare, si è andati sempre più verso forme di mistificazione dietetica e sono molti quelli che osservano strampalati programmi di “recupero del fisico” rifacendosi alle dottrine orientali in modo del tutto errato (senza cioè la conoscenza critica e culturale adeguata) o ad estremi programmi di fitness. Bisogna perciò sostenere una politica volta al recupero e alla riscoperta delle proprie agricolture, combattendo la pirateria genetica ed evitando che “si riversi altro cibo a basso costo sulle nostre economie sazie di beni alimentari massivi e di bassa qualità” (Carlo Petrini – Presidente dell’Associazione internazionale Slowfood). Se conosciamo il cibo per il significato che ha per l’uomo, se assumiamo che esso è un linguaggio, se difendiamo la biodiversità, possiamo allora cimentarci nel gusto. Possiamo raggiungere il palato in maniera culturalmente corretta. Il Maiale Ubriaco così ha anche più senso d’esistere. Se avessimo voluto soltanto suggerire ricette, probabilmente ci saremmo mischiati alla già enorme quantità e varietà di ricettari presenti nel web. Ma poiché siamo legati al territorio e le nostre ricette provengono da scelte controllate o dai taccuini “di paese” delle nostre famiglie, diventa logico più che lecito, fissare talune argomentazioni, se non altro per l’emotiva sensibilità che ci lega ai nostri luoghi, ai nostri prodotti, alla voglia di adoperarci correttamente nella loro difesa e divulgazione. E questo, forse, si può fare (perché no) anche partendo dalle fave. Chiunque abbia voglia di correggerci, di maledirci, di aggiungere e discutere, può naturalmente farlo in questo blog che da tempo sentiamo come una nostra (e vostra) possibilità di confronto diretto. E ora spazio al gusto.
Dopo il XIII secolo, con la nascita dei primi ceti urbani, le fave, con gli altri legumi, trovarono posto sui banchi dei mercati cittadini. E fu questo il periodo di maggiore diffusione della fava, considerata fino al XV secolo il miglior legume per il suo alto rendimento. Scomparsa nell’800 e non apprezzata dalla gastronomia del XIX e del XX secolo, fu riconsiderata dopo il 1970 quando, nella prospettiva di rilancio di una alimentazione povera, a sostegno della dieta mediterranea, si verificò una ripresa del consumo di legumi (www.pbmstoria.it). E occorre sapere che il movimento Slowfood, al quale ci sentiamo di aderire per etica ed intenti, ha fatto sorgere dei Presìdi che “sostengono le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzando territori, recuperando mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvando dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta (www.slowfood.it)”. Per ciò che riguarda le fave, sono state poste a tutela la “Fava di Carpino (Puglia) e la Fava Larga di Leonforte (Sicilia).
Ma veniamo (o ritorniamo) al simbolico. Il rapporto dell’uomo con il cibo non è mai solo la soddisfazione di un bisogno. Attorno al cibo si sviluppano segnali che lo trasformano, si collegano simbologie, consuetudini e riti. Si associano al cibo comportamenti e scelte che rispondono a bisogni sovrastrutturali. Non a caso un atteggiamento dicotomico è presto individuabile nell’antichità. Da un lato c’era chi mangiava “a sbafo” alimenti di qualsiasi ordine, dall’altro troviamo nei santi e negli asceti il rifiuto della condizione umana per elevarsi alla comunicazione divina, espletato attraverso il digiuno. Ed è facile trovare un forte nesso con quelle che oggi consideriamo patologie (come l’anoressia) in questo atteggiamento in cui il “disturbo” diviene un modo per elevarsi al rango di Dio. Il digiuno rompe i confini fisici imposti dal corpo. Superare i limiti del corpo e rinunciare, quindi, ad essere mortali, offre la possibilità, l’illusione, di diventare immortali. Tutto questo comporta ovviamente una rottura con i rituali che accompagnano l’alimentazione. “Un alone di santità ha sempre circondato il digiuno, ma anche la fame smodata. Ad un polo troviamo la bulimia, la cui traduzione letterale è “fame da bue”. Al polo opposto troviamo il digiuno, avvolto di valenze positive, escludendo ovviamente la prospettiva patologica in cui anche la medicina antica lo collocava in particolari casi ben documentati, tanto da Ippocrate che da Galeno (Artusi, a.a. 1991-1992)”.
Quello su cui dobbiamo riflettere è il valore e la diffusione di certi messaggi. Nella nostra epoca, in cui l’esplosione demografica, lo sviluppo agricolo-industriale e scientifico, la diffusione dei mass media dovrebbero suggerire e sostenere corretti e validi programmi di educazione alimentare, si è andati sempre più verso forme di mistificazione dietetica e sono molti quelli che osservano strampalati programmi di “recupero del fisico” rifacendosi alle dottrine orientali in modo del tutto errato (senza cioè la conoscenza critica e culturale adeguata) o ad estremi programmi di fitness. Bisogna perciò sostenere una politica volta al recupero e alla riscoperta delle proprie agricolture, combattendo la pirateria genetica ed evitando che “si riversi altro cibo a basso costo sulle nostre economie sazie di beni alimentari massivi e di bassa qualità” (Carlo Petrini – Presidente dell’Associazione internazionale Slowfood). Se conosciamo il cibo per il significato che ha per l’uomo, se assumiamo che esso è un linguaggio, se difendiamo la biodiversità, possiamo allora cimentarci nel gusto. Possiamo raggiungere il palato in maniera culturalmente corretta. Il Maiale Ubriaco così ha anche più senso d’esistere. Se avessimo voluto soltanto suggerire ricette, probabilmente ci saremmo mischiati alla già enorme quantità e varietà di ricettari presenti nel web. Ma poiché siamo legati al territorio e le nostre ricette provengono da scelte controllate o dai taccuini “di paese” delle nostre famiglie, diventa logico più che lecito, fissare talune argomentazioni, se non altro per l’emotiva sensibilità che ci lega ai nostri luoghi, ai nostri prodotti, alla voglia di adoperarci correttamente nella loro difesa e divulgazione. E questo, forse, si può fare (perché no) anche partendo dalle fave. Chiunque abbia voglia di correggerci, di maledirci, di aggiungere e discutere, può naturalmente farlo in questo blog che da tempo sentiamo come una nostra (e vostra) possibilità di confronto diretto. E ora spazio al gusto.
4 Comments:
Sempr un piacere leggere un po' di storia. Grazie molte delle delucidazioni sulle fave
Sono perfettamente d'accordo: come si può giustificare una passione con la sola finalità della sopravvivenza? Le passioni nascono proprio quando la preoccupazione di sopravvivere è diventata remota...
Ma che dici Ste, maledire? Sei bravissimo e l'antropologia la tieni nel sangue; sono D'accordo con te che non dovete limitarvi alla pubblicazione di ricette,già molte in giro per la verità.Il vostro blog è bello proprio per questa diversità:associazione di esperienze culinarie personali, foto,varianti possibili e la storia o spiegazione di volta in volta dell'alimento scelto.Mi piace tutto però se permetti sulle fave ti sei un po dilungato quando hai parlato pure di botanica.E' stata una tesi di antropologia più che notizie interessanti o curiose selle fave:ciao e complimenti.
Terry M.
Eccoci..dopo una pausa dovuta causa studio e mille altre cose. Ringrazio tutti per le precisazioni (se sono stato impreciso vogliate correggermi inviando le vostre notizie più precise - postatele oppure scriveteci al ns indirizzo di posta)come ho scritto è fondamentale il vostro contributo. Terry, sò di essermi un pò dilungato ma ho scritto d'istinto alcune parti e poi mi sembrava doveroso. Continuate a seguirci. Ste-
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