antropologia della melanzana: naturalità de-localizzata e presidio Slowfood – pensieri sparsi nel cielo rabbuiato di agosto
agosto - non sembra agosto..
ho sentito che a milano hanno dormito col piumone.
e a ben dire anche io ho messo su una felpa leggera.
oggi devo scrivere sulla melanzana ma proprio non ne ho voglia. a riguardo ho solo una parola che mi gira in testa da qualche ora: mela insana.. . faccio un giro nel passato storico del nostro prezioso ortaggio e scopro che al tempo non godeva di sì tanto rispetto..ma anzi era temuto e odiato nonostante già in età preistorica i Cinesi e alcune regioni dell’Asia centrale ne facessero largo uso coltivandolo (..e l’occidente domina ..forse dovremmo guardare più spesso all’oriente..alla sua sapienza..al “segno” ideogrammatico che prodotto dell’uomo sembra – ribaltandosi – averlo generato..l’uomo). mela dei folli. originaria dell’India introdotta nel mediterraneo dagli arabi (badingian – frutto incrociato con la mela) e successivamente arrivata in Italia nel XIII secolo. precisamente in Sicilia. la melanzana era ritenuta tossica e superstiziosamente generante follia. Ibn Botlan. medico arabo. figura importante che ci ha tramandato precetti d’alimentazione e dietetica attraverso il suo contributo al Tacuinum Sanitatis (prima enciclopedia di scienza naturale oggi conservata alla Biblioteca Casanatense) ci informa che questa. secondo antiche credenze. era ritenuta generatrice di “melanconici umori”. era velenosa e spingeva alla lussuria smodata. quattro secoli fa studiosi e naturalisti accettarono così l’antica credenza che faceva derivare il nome di melanzana dal latino malum insanum..frutto insalubre. da allora furono messe in giro voci che essa fosse portatrice di peste cancro e cefalea. per questo la melanzana fu l’ortaggio delle classi medio-basse. in Italia i frati Carmelitani provvidero a diffonderla. facendola entrare negli orti dove erano coltivate sia le piante medicamentose sia quelle alimentari. nel 1550 la melanzana fu citata nel Trattato della coltura degli orti e giardini del naturalista italiano Soderini. ma bisognerà arrivare verso la metà dell’800 perché possa diffondersi su molte mense e mercati europei. dal nome che gli Arabi le diedero. quando fu introdotta in Italia subì l’aggiunta del suffisso melo divenendo così melo-badingian..poi melangian da cui il nome attuale. in altre regioni il suffisso fu petro (pedro-badingian) quindi petronciano. altro sinonimo con il quale è indicata. nei vari dialetti italiani la melanzana è stata denominata volta per volta: petonciano petronciana merinzana maranzana marignani (Lazio) malignane (Campania) milangiane (Calabria) mulinciani (Sicilia). il nome scientifico è Solanum melongena ed indica l’appartenenza alla famiglia delle Solanacee (fonte: Accademia Italiana della Cucina). ora..onde evitare che tutte queste informazioni restino sospese nel vuoto ci occorre che raccordino. che ritornino cioè “utili” nel conferimento di senso critico che da sempre (dall’apertura del blog) distingue il nostro lavoro. la prima cosa che ci fa riflettere (informazioni alla mano) è che la provenienza della melanzana nella nostra cultura non è italiana. ed è curioso pensare il modo in cui oggi interveniamo nella manipolazione o nella difesa di alcuni prodotti indicati da noi stessi come “nostri” perché territoriali..ma che in effetti se territoriali sono sarebbe meglio dire che “lo sono diventati”. ciò che è autoctono. si pensa. è genuino. autentico. mentre ciò che proviene da fuori è sofisticato. artificiale. ma cosa è veramente autoctono? mi piace molto il discorso in tema portato avanti da Alessandra Guigoni. etnologa. già dal Medioevo gli Arabi hanno diffuso in Occidente agrumi spinaci riso melanzana zucchero e. dopo la scoperta dell’America suini bovini e ovini sono stati portati negli States rivoluzionando i regimi alimentari. ancora alcune piante amerindiane (es. pomodoro e peperoncino) sono divenute il simbolo dell’ Italia genuina. e sappiamo che in epoca preistorica (come già accennato) le piante divenute poi il simbolo dell’alimentazione europea (grano vite ulivo) provengono dal vicino Oriente. così se il locale. in qualche modo. si de-localizza anche la credenza che la naturalità di un prodotto provenga dalla sua lavorazione artigianale deve essere soggetta a qualche precisazione. la tradizione. i saperi rurali legati alla coltivazione e alla preparazione degli alimenti sono mutati radicalmente nel corso dei secoli. molti dei prodotti che consideriamo tradizionali sono in realtà frutto di moderne tecniche e innovazione tecnologica. se pensassimo (per tornare ancora una volta alla storia) a come. ad esempio. venivano conservati gli alimenti quando non esistevano le celle frigorifere. ci renderemmo conto delle ripercussioni. in termini di gusto. che queste antiche tecniche (la conservazione sotto sale o l’essiccazione) porterebbero ai nostri nasi o alle nostre bocche. troveremmo i cibi esageratamente salati. stucchevolmente agrodolci ed eccessivamente speziati. oltre che ci sembrerebbero desueti alcuni atteggiamenti alimentari o più semplicemente “da tavola” della cucina medioevale o di campagna. Così se da un lato. oggi. assistiamo ad una lucida estetizzazione delle pratiche culinarie (Guigoni 2004). per cui molto spesso le forme e i colori degli alimenti cambiano o “vengono cambiati” (de-naturalizzazione) nella loro estetica e presentazione (quasi che fosse impossibile sapere se quella cosa nel piatto sia pollo o cos’altro).. penso alla cucina de-strutturata o cerebrale.. dall’altro una consapevole presa di coscienza ad opera di importanti associazioni e movimenti nazionali e internazionali (senza dimenticare tutti quegli agricoltori e produttori che hanno aderito localmente a tale presa di coscienza) si pone a tutela del territorio e dei suoi prodotti. adoperandosi mediante tecnologie avanzate tali enti garantiscono la sopravvivenza di realtà gastronomiche che altrimenti (rimanendo legate a processi di coltivazione e produzione antiquati) non riuscirebbero a sopravvivere. così alla tradizione va incontro l’innovazione. chiaro è che questi organismi hanno eticamente stabilito la completa compatibilità di tali tecniche e tecnologie con il territorio. possiamo così parlare di necessità o volontà di restituire ai territori le proprie realtà agricole o di volerle mantenere..proprio nel rispetto di quella naturalità artigianale tanto chiacchierata.. o sposare la tesi della Guigoni per cui si tratterebbe piuttosto di “una forte nostalgia della naturalità perduta. sempre più sentita nei paesi cosiddetti sviluppati. attraverso il biologico. spesso sublimazione della tradizione. mentre la produzione del cibo diventa sempre più tecnologicamente avanzata. i luoghi di produzione distanti e anzi opposti a quelli di consumo (se è vero che il 20% della popolazione consuma la produzione del restante 80%) e la biodiversità del pianeta va assottigliandosi”. Noi. Che degli Enti posti a tutela ci sentiamo portavoci e che della melanzana stavamo e stiamo sempre specificamente parlando..lasciando a voi lettori la possibilità di approfondire gli spunti suggeriti .. non possiamo dimenticare il grande contributo che Slowfood sta dando in questo tempo alle nostre realtà territoriali. segnaliamo così un Presidio che in Basilicata sostiene una piccola produzione eccellente che rischia di scomparire: la melanzana rossa di Rotonda. “è piccola e tondeggiante come una mela. di colore arancio intenso con sfumature verdognole e rossastre: più che una melanzana sembra un caco o un pomodoro. non a caso nella parlata locale si chiama merlingiana a pummadora. la melanzana Rossa di Rotonda (Solanum Aethiopicum) non ha nulla da spartire con la comune melanzana (Solanum Melongena) giunta in Europa dall'India e provvista di bacche di un bel viola intenso. quella di Rotonda è arrivata alla fine dell'Ottocento. probabilmente dall'Africa. forse importata da alcuni soldati di ritorno dalle guerre coloniali.sconosciuta altrove. è una pianta rustica coltivata in tutti gli orti di Rotonda e ha un sapore più piccante ed esotico delle comuni melanzane. le piantine sono poste a dimora in maggio e il primo raccolto avviene nel mese di agosto per continuare fino ai primi freddi. anche le modalità di conservazione sono caratteristiche: le piccole melanzane sono nzertate. cioè legate a grappoli come si fa per peperoni e pomodorini. e quindi messe ad asciugare sotto tettoie. la rossa melanzana “africana” è solo una delle verdure che fanno di Rotonda (4000 abitanti. altitudine circa 600 metri. a una cinquantina di chilometri dal mare di Maratea) una piccola capitale dell'orticoltura di tradizione. inserita in un contesto ambientale unico: il Parco Nazionale del Pollino. l'area protetta più estesa del nostro Paese. è consumata sott'olio e sott'aceto. quasi mai appena colta. e sono apprezzate anche le foglie. tenere. molto diverse da quelle della comune melanzana. per forma e dimensioni.la polpa è carnosa. non annerisce nemmeno dopo parecchie ore dal taglio. il profumo è intenso. fruttato (ricorda addirittura il fico d'India). al palato è piccante con un gradevole finale amarognolo”(www.fondazioneslowfood.it/ita/presidi/dettaglio.lasso?cod=134). per concludere ci stiamo avventurando in un percorso alle volte tortuoso in cui da una parte (è vero) il menù quotidiano del ceto medio urbano di una città cosmopolita spazia dall’artigianale all’industriale – o ri-prodotto fedelmente a danno della tradizione. e dall’altra la tradizione stessa è soggetta. per non perdersi. all’introduzione di strumenti tecnologici di produzione avanzati..da qui la paura che la produzione massificata e non controllata nella qualità ne distrugga proprio il senso culturale..oltre che il sapore ed il gusto originari. come sempre la verità sta nel mezzo..ed il centro risiede al solito e forse banalmente nella coscienza critica di chi opera. di chi produce. di chi mangia.
ho sentito che a milano hanno dormito col piumone.
e a ben dire anche io ho messo su una felpa leggera.
oggi devo scrivere sulla melanzana ma proprio non ne ho voglia. a riguardo ho solo una parola che mi gira in testa da qualche ora: mela insana.. . faccio un giro nel passato storico del nostro prezioso ortaggio e scopro che al tempo non godeva di sì tanto rispetto..ma anzi era temuto e odiato nonostante già in età preistorica i Cinesi e alcune regioni dell’Asia centrale ne facessero largo uso coltivandolo (..e l’occidente domina ..forse dovremmo guardare più spesso all’oriente..alla sua sapienza..al “segno” ideogrammatico che prodotto dell’uomo sembra – ribaltandosi – averlo generato..l’uomo). mela dei folli. originaria dell’India introdotta nel mediterraneo dagli arabi (badingian – frutto incrociato con la mela) e successivamente arrivata in Italia nel XIII secolo. precisamente in Sicilia. la melanzana era ritenuta tossica e superstiziosamente generante follia. Ibn Botlan. medico arabo. figura importante che ci ha tramandato precetti d’alimentazione e dietetica attraverso il suo contributo al Tacuinum Sanitatis (prima enciclopedia di scienza naturale oggi conservata alla Biblioteca Casanatense) ci informa che questa. secondo antiche credenze. era ritenuta generatrice di “melanconici umori”. era velenosa e spingeva alla lussuria smodata. quattro secoli fa studiosi e naturalisti accettarono così l’antica credenza che faceva derivare il nome di melanzana dal latino malum insanum..frutto insalubre. da allora furono messe in giro voci che essa fosse portatrice di peste cancro e cefalea. per questo la melanzana fu l’ortaggio delle classi medio-basse. in Italia i frati Carmelitani provvidero a diffonderla. facendola entrare negli orti dove erano coltivate sia le piante medicamentose sia quelle alimentari. nel 1550 la melanzana fu citata nel Trattato della coltura degli orti e giardini del naturalista italiano Soderini. ma bisognerà arrivare verso la metà dell’800 perché possa diffondersi su molte mense e mercati europei. dal nome che gli Arabi le diedero. quando fu introdotta in Italia subì l’aggiunta del suffisso melo divenendo così melo-badingian..poi melangian da cui il nome attuale. in altre regioni il suffisso fu petro (pedro-badingian) quindi petronciano. altro sinonimo con il quale è indicata. nei vari dialetti italiani la melanzana è stata denominata volta per volta: petonciano petronciana merinzana maranzana marignani (Lazio) malignane (Campania) milangiane (Calabria) mulinciani (Sicilia). il nome scientifico è Solanum melongena ed indica l’appartenenza alla famiglia delle Solanacee (fonte: Accademia Italiana della Cucina). ora..onde evitare che tutte queste informazioni restino sospese nel vuoto ci occorre che raccordino. che ritornino cioè “utili” nel conferimento di senso critico che da sempre (dall’apertura del blog) distingue il nostro lavoro. la prima cosa che ci fa riflettere (informazioni alla mano) è che la provenienza della melanzana nella nostra cultura non è italiana. ed è curioso pensare il modo in cui oggi interveniamo nella manipolazione o nella difesa di alcuni prodotti indicati da noi stessi come “nostri” perché territoriali..ma che in effetti se territoriali sono sarebbe meglio dire che “lo sono diventati”. ciò che è autoctono. si pensa. è genuino. autentico. mentre ciò che proviene da fuori è sofisticato. artificiale. ma cosa è veramente autoctono? mi piace molto il discorso in tema portato avanti da Alessandra Guigoni. etnologa. già dal Medioevo gli Arabi hanno diffuso in Occidente agrumi spinaci riso melanzana zucchero e. dopo la scoperta dell’America suini bovini e ovini sono stati portati negli States rivoluzionando i regimi alimentari. ancora alcune piante amerindiane (es. pomodoro e peperoncino) sono divenute il simbolo dell’ Italia genuina. e sappiamo che in epoca preistorica (come già accennato) le piante divenute poi il simbolo dell’alimentazione europea (grano vite ulivo) provengono dal vicino Oriente. così se il locale. in qualche modo. si de-localizza anche la credenza che la naturalità di un prodotto provenga dalla sua lavorazione artigianale deve essere soggetta a qualche precisazione. la tradizione. i saperi rurali legati alla coltivazione e alla preparazione degli alimenti sono mutati radicalmente nel corso dei secoli. molti dei prodotti che consideriamo tradizionali sono in realtà frutto di moderne tecniche e innovazione tecnologica. se pensassimo (per tornare ancora una volta alla storia) a come. ad esempio. venivano conservati gli alimenti quando non esistevano le celle frigorifere. ci renderemmo conto delle ripercussioni. in termini di gusto. che queste antiche tecniche (la conservazione sotto sale o l’essiccazione) porterebbero ai nostri nasi o alle nostre bocche. troveremmo i cibi esageratamente salati. stucchevolmente agrodolci ed eccessivamente speziati. oltre che ci sembrerebbero desueti alcuni atteggiamenti alimentari o più semplicemente “da tavola” della cucina medioevale o di campagna. Così se da un lato. oggi. assistiamo ad una lucida estetizzazione delle pratiche culinarie (Guigoni 2004). per cui molto spesso le forme e i colori degli alimenti cambiano o “vengono cambiati” (de-naturalizzazione) nella loro estetica e presentazione (quasi che fosse impossibile sapere se quella cosa nel piatto sia pollo o cos’altro).. penso alla cucina de-strutturata o cerebrale.. dall’altro una consapevole presa di coscienza ad opera di importanti associazioni e movimenti nazionali e internazionali (senza dimenticare tutti quegli agricoltori e produttori che hanno aderito localmente a tale presa di coscienza) si pone a tutela del territorio e dei suoi prodotti. adoperandosi mediante tecnologie avanzate tali enti garantiscono la sopravvivenza di realtà gastronomiche che altrimenti (rimanendo legate a processi di coltivazione e produzione antiquati) non riuscirebbero a sopravvivere. così alla tradizione va incontro l’innovazione. chiaro è che questi organismi hanno eticamente stabilito la completa compatibilità di tali tecniche e tecnologie con il territorio. possiamo così parlare di necessità o volontà di restituire ai territori le proprie realtà agricole o di volerle mantenere..proprio nel rispetto di quella naturalità artigianale tanto chiacchierata.. o sposare la tesi della Guigoni per cui si tratterebbe piuttosto di “una forte nostalgia della naturalità perduta. sempre più sentita nei paesi cosiddetti sviluppati. attraverso il biologico. spesso sublimazione della tradizione. mentre la produzione del cibo diventa sempre più tecnologicamente avanzata. i luoghi di produzione distanti e anzi opposti a quelli di consumo (se è vero che il 20% della popolazione consuma la produzione del restante 80%) e la biodiversità del pianeta va assottigliandosi”. Noi. Che degli Enti posti a tutela ci sentiamo portavoci e che della melanzana stavamo e stiamo sempre specificamente parlando..lasciando a voi lettori la possibilità di approfondire gli spunti suggeriti .. non possiamo dimenticare il grande contributo che Slowfood sta dando in questo tempo alle nostre realtà territoriali. segnaliamo così un Presidio che in Basilicata sostiene una piccola produzione eccellente che rischia di scomparire: la melanzana rossa di Rotonda. “è piccola e tondeggiante come una mela. di colore arancio intenso con sfumature verdognole e rossastre: più che una melanzana sembra un caco o un pomodoro. non a caso nella parlata locale si chiama merlingiana a pummadora. la melanzana Rossa di Rotonda (Solanum Aethiopicum) non ha nulla da spartire con la comune melanzana (Solanum Melongena) giunta in Europa dall'India e provvista di bacche di un bel viola intenso. quella di Rotonda è arrivata alla fine dell'Ottocento. probabilmente dall'Africa. forse importata da alcuni soldati di ritorno dalle guerre coloniali.sconosciuta altrove. è una pianta rustica coltivata in tutti gli orti di Rotonda e ha un sapore più piccante ed esotico delle comuni melanzane. le piantine sono poste a dimora in maggio e il primo raccolto avviene nel mese di agosto per continuare fino ai primi freddi. anche le modalità di conservazione sono caratteristiche: le piccole melanzane sono nzertate. cioè legate a grappoli come si fa per peperoni e pomodorini. e quindi messe ad asciugare sotto tettoie. la rossa melanzana “africana” è solo una delle verdure che fanno di Rotonda (4000 abitanti. altitudine circa 600 metri. a una cinquantina di chilometri dal mare di Maratea) una piccola capitale dell'orticoltura di tradizione. inserita in un contesto ambientale unico: il Parco Nazionale del Pollino. l'area protetta più estesa del nostro Paese. è consumata sott'olio e sott'aceto. quasi mai appena colta. e sono apprezzate anche le foglie. tenere. molto diverse da quelle della comune melanzana. per forma e dimensioni.la polpa è carnosa. non annerisce nemmeno dopo parecchie ore dal taglio. il profumo è intenso. fruttato (ricorda addirittura il fico d'India). al palato è piccante con un gradevole finale amarognolo”(www.fondazioneslowfood.it/ita/presidi/dettaglio.lasso?cod=134). per concludere ci stiamo avventurando in un percorso alle volte tortuoso in cui da una parte (è vero) il menù quotidiano del ceto medio urbano di una città cosmopolita spazia dall’artigianale all’industriale – o ri-prodotto fedelmente a danno della tradizione. e dall’altra la tradizione stessa è soggetta. per non perdersi. all’introduzione di strumenti tecnologici di produzione avanzati..da qui la paura che la produzione massificata e non controllata nella qualità ne distrugga proprio il senso culturale..oltre che il sapore ed il gusto originari. come sempre la verità sta nel mezzo..ed il centro risiede al solito e forse banalmente nella coscienza critica di chi opera. di chi produce. di chi mangia.
3 Comments:
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
ciao ragazzi,
anche se c'ho messo un pochino a leggerlo....questo post è veramente, veramente molto interessante....un sacco di notizie curiose, ed un sacco di informazioni ....
complimenti e grazie
bEtti
ciao Betti e grazie. Le antropologie nn sono mai di facile digestione ma è bene che sia così. Riflettere è diventata una cosa rara. Seguici sempre. Ste-
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