martedì, maggio 30

torta caprese



La Torta Caprese, diffusa oltre che a Capri anche nella Penisola Sorrentina e in Costiera Amalfitana, ha delle origini non molto chiare, ma sembra forte la convinzione da parte di molti abitanti del luogo che sia nata per caso, negli anni venti, nel laboratorio di un artigiano dell’isola. Una creazione involontaria quindi, poiché il cuoco Carmine di Fiore, narra la leggenda, avrebbe dimenticato di mettere la farina in una torta di mandorle preparata per dei turisti americani. Un errore imperdonabile si direbbe per un professionista del settore, ma che ha lanciato un mito, rendendo la torta caprese uno dei simboli della cucina isolana. Il nome infatti ne richiama inevitabilmente le radici, ma anche gli ingredienti e il metodo di lavorazione fanno riassaporare, nel senso letterale del termine, la tradizione della cucina popolare, semplice, povera, a base di ingredienti locali e genuina. Negli anni la caprese é stata riproposta in diverse varianti: con gli amaretti o con le nocciole al posto delle mandorle, oppure al limone, esaltando i profumi di un’altro prodotto locale, il limocello. Vorrei ricordare peró che la caprese é, secondo la tradizione locale, una torta di cioccolata e mandorle, croccante fuori e morbida dentro, bassa e molto carica di cioccolato fondente. Ecco perché nonostante la semplicitá nell’esecuzione non risulta sempre facile ottenere un prodotto finito all’altezza.

200 gr. di mandorle pelate,
200 gr. di cioccolato fondente
200 gr. di zucchero
100 gr. di burro
40 gr. di fecola di patate
40 gr. di cacao
5 uova

Tritare le mandorle e sciogliere il cioccolato fondente a bagno maria. In una terrina amalgamare insieme lo zucchero, i cinque tuorli d’uovo ed il burro precedentemente ammorbidito. Montare e dopo aver amalgamato bene gli ingredienti aggiungere la fecola , il cacao, le mandorle tritate e il cioccolato. Unire infine gli albumi delle uova montati a neve. Versare il tutto in una teglia di poco meno 25 cm di diametro, imburrata e spolverizzata di farina.
Infornare ad una temperatura di 160 gradi e cuocere per 40 minuti.A completo raffreddamento, spolverizzare la torta con dello zucchero a velo.

martedì, maggio 23

antropologia delle fave

“Si casca bene a parlar di fave..” scrissi qualche giorno fa in un commento a supporto della ricetta postata dal mio socio. Ed infatti ritengo possibile "un’antropologia delle fave” per tentare una ricucitura di fondo a livello storico ma, soprattutto, per riflettere in una prospettiva antropologico-alimentare, su quelli che sono e sono stati i complessi significati simbolici che da sempre ci legano al cibo e alla sua preparazione. Se oggi parliamo e pensiamo “sul gusto”, riscoprendo così i prodotti territoriali e difendendo una economia agricola “contadina” poco o per niente legata alle logiche di mercato globale-industriale, quelle cioè che già propinano e prospettano un appiattimento culturale in materia alimentare e confondono così lo sviluppo con la crescita a danno della qualità, dobbiamo e possiamo difendere quel gusto conoscendone (a misura di strumento culturale) la storia, i nessi e connessi simbolici, il rapporto con l’uomo, riscoprendo il ruolo che il cibo, da sempre, ricopre nella nostra esistenza. Dunque le fave…: originarie del bacino del mediterraneo e del vicino Oriente, erano esse oggetto di un forte tabù da parte della casta sacerdotale egizia e della scuola pitagorica greca. Venivano infatti associate, come tutti i legumi, al mondo dei morti e alle pratiche esoteriche. L’unione dei due cotiledoni (organo vegetale embrionale delle piante superiori -gimnosperme e angiosperme - che provvede al nutrimento della piantina nelle fasi immediatamente successive alla germinazione del seme, attraverso il rilascio delle sostanze nutritive in esso immagazzinate o lo svolgimento della fotosintesi) all’interno dell’unico involucro suggeriva il concetto della complementarietà tra la vita esterna (essoterica) e la vita nascosta (esoterica), la continuità tra vita e morte. Orfici e Pitagorici elevarono il vegetarianesimo a modello alimentare perfetto per conseguire una condizione superumana. E sempre parlando di fave, occorrerà sapere che per i pitagorici le interdizioni alimentari si estendevano anche ad alcuni vegetali: le fave erano infatti considerate un rifugio delle anime dei morti. La fava diventò quindi tabù alimentare per Pitagora. Egli creò la sua scuola a Crotone, in Calabria, dove era ed è diffuso il favismo, una sindrome emolitica acuta connessa con un ereditario deficit, nei globuli rossi, di un particolare enzima che si manifesta dopo ingestione da fava. E’ chiaro che i precetti alimentari dei pitagorici rispondevano (per altro correttamente) ai contenuti dottrinali etico-mistici della scuola. Sin dall’antichità i legumi (per l’elevato valore energetico e la capacità di resistere – essiccati – a lunghi periodi di conservazione) venivano consumati sia crudi (fave e lupini) sia cotti, da soli, conditi con aceto o, come consigliava Catone, mischiati in rustiche minestre (pulmentaria) assieme al grano, al farro e all’orzo. Dalla farina di fave, poi, si ricavava il maccus, una sorta di polenta.
Dopo il XIII secolo, con la nascita dei primi ceti urbani, le fave, con gli altri legumi, trovarono posto sui banchi dei mercati cittadini. E fu questo il periodo di maggiore diffusione della fava, considerata fino al XV secolo il miglior legume per il suo alto rendimento. Scomparsa nell’800 e non apprezzata dalla gastronomia del XIX e del XX secolo, fu riconsiderata dopo il 1970 quando, nella prospettiva di rilancio di una alimentazione povera, a sostegno della dieta mediterranea, si verificò una ripresa del consumo di legumi (www.pbmstoria.it). E occorre sapere che il movimento Slowfood, al quale ci sentiamo di aderire per etica ed intenti, ha fatto sorgere dei Presìdi che “sostengono le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzando territori, recuperando mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvando dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta (www.slowfood.it)”. Per ciò che riguarda le fave, sono state poste a tutela la “Fava di Carpino (Puglia) e la Fava Larga di Leonforte (Sicilia).
Ma veniamo (o ritorniamo) al simbolico. Il rapporto dell’uomo con il cibo non è mai solo la soddisfazione di un bisogno. Attorno al cibo si sviluppano segnali che lo trasformano, si collegano simbologie, consuetudini e riti. Si associano al cibo comportamenti e scelte che rispondono a bisogni sovrastrutturali. Non a caso un atteggiamento dicotomico è presto individuabile nell’antichità. Da un lato c’era chi mangiava “a sbafo” alimenti di qualsiasi ordine, dall’altro troviamo nei santi e negli asceti il rifiuto della condizione umana per elevarsi alla comunicazione divina, espletato attraverso il digiuno. Ed è facile trovare un forte nesso con quelle che oggi consideriamo patologie (come l’anoressia) in questo atteggiamento in cui il “disturbo” diviene un modo per elevarsi al rango di Dio. Il digiuno rompe i confini fisici imposti dal corpo. Superare i limiti del corpo e rinunciare, quindi, ad essere mortali, offre la possibilità, l’illusione, di diventare immortali. Tutto questo comporta ovviamente una rottura con i rituali che accompagnano l’alimentazione. “Un alone di santità ha sempre circondato il digiuno, ma anche la fame smodata. Ad un polo troviamo la bulimia, la cui traduzione letterale è “fame da bue”. Al polo opposto troviamo il digiuno, avvolto di valenze positive, escludendo ovviamente la prospettiva patologica in cui anche la medicina antica lo collocava in particolari casi ben documentati, tanto da Ippocrate che da Galeno (Artusi, a.a. 1991-1992)”.
Quello su cui dobbiamo riflettere è il valore e la diffusione di certi messaggi. Nella nostra epoca, in cui l’esplosione demografica, lo sviluppo agricolo-industriale e scientifico, la diffusione dei mass media dovrebbero suggerire e sostenere corretti e validi programmi di educazione alimentare, si è andati sempre più verso forme di mistificazione dietetica e sono molti quelli che osservano strampalati programmi di “recupero del fisico” rifacendosi alle dottrine orientali in modo del tutto errato (senza cioè la conoscenza critica e culturale adeguata) o ad estremi programmi di fitness. Bisogna perciò sostenere una politica volta al recupero e alla riscoperta delle proprie agricolture, combattendo la pirateria genetica ed evitando che “si riversi altro cibo a basso costo sulle nostre economie sazie di beni alimentari massivi e di bassa qualità” (Carlo Petrini – Presidente dell’Associazione internazionale Slowfood). Se conosciamo il cibo per il significato che ha per l’uomo, se assumiamo che esso è un linguaggio, se difendiamo la biodiversità, possiamo allora cimentarci nel gusto. Possiamo raggiungere il palato in maniera culturalmente corretta. Il Maiale Ubriaco così ha anche più senso d’esistere. Se avessimo voluto soltanto suggerire ricette, probabilmente ci saremmo mischiati alla già enorme quantità e varietà di ricettari presenti nel web. Ma poiché siamo legati al territorio e le nostre ricette provengono da scelte controllate o dai taccuini “di paese” delle nostre famiglie, diventa logico più che lecito, fissare talune argomentazioni, se non altro per l’emotiva sensibilità che ci lega ai nostri luoghi, ai nostri prodotti, alla voglia di adoperarci correttamente nella loro difesa e divulgazione. E questo, forse, si può fare (perché no) anche partendo dalle fave. Chiunque abbia voglia di correggerci, di maledirci, di aggiungere e discutere, può naturalmente farlo in questo blog che da tempo sentiamo come una nostra (e vostra) possibilità di confronto diretto. E ora spazio al gusto.

lunedì, maggio 15

purea di fave con cicoria selvatica


In questo periodo le fave, chiamate anche “carne dei poveri” per il loro elevato contenuto nutritivo, raggiungono il loro livello di maturazione. In particolare é possibile trovare nei mercati le fave piú grandi, buone da cucinare o essiccare. Prodotto povero dicevo in quanto le fave hanno rappresentato fin dai tempi del medioevo la base dell'alimentazione delle classi meno abbienti.
In Italia le antiche ricette della tradizione contadina meridionale venivano sempre ottenute con ingredienti poveri, utilizzando prodotti d’avanzo e verdure per lo piú selvatiche. Mi é allora venuta in mente una ricetta tipica della cucina Lucana, la purea di fave con cicoria.

500 gr fave secche decorticate
1 kg cicoria selvatica
olio extra vergine d’oliva
1/2 peperoncino
sale
pepe

Sciacquate le fave e mettetele a bagno in acqua tiepida per almeno 4 o 5 ore. Successivmanete scolatele e mettetele in pentola, coperte di acqua fredda. Portate ad ebollizione, salate, abbassate la fiamma e lasciate cuocere per 1 ora senza mai toccarle fino a quando le fave risulteranno tenere, quasi disfatte. Una volta pronte, conditele con 4-5 cucchiai d'olio e lavoratele con un cucchiaio di legno, trasformandole in una purea non troppo densa. Intanto la cicoria andrá pulita, lessata in abbondante acqua salata e, una volta scolata, saltata in padella con un filo d’olio ed il peperoncino. Una volta ultimata la cottura distribuite la purea ben calda nei singoli piatti con accanto una porzione di cicoria. Aggiungere del pepe macinato, del sale grosso ed dell’olio d’oliva crudo.
Per assaporare a pieno questo piatto la cicoria va di volta in volta passata nella purea di fave in modo da unire il gusto amaro della cicoria alla dolcezza delle fave.

martedì, maggio 2

capunti aperti con pomodorini ricotta menta fresca e schegge di limone



La primavera è -quasi- sbocciata e il mio socio è in ferie nel sud dell’Europa. Prima di partire mi ha raccomandato:” occupati tu di postare questo o quell’articolo attingendo al materiale che abbiamo in archivio”. Il sole era bello alto e caldo questa mattina.. avevo voglia di un piatto ricco ma fresco, profumato e di stagione. Ho preso un po’ di cose che avevo in dispensa e ho assemblato gli ingredienti. Il palato ne è rimasto contento.. e molto, per non parlare della pancia. Degli articoli in archivio già me ne ero dimenticato e la menta fresca fuori in giardino, proprio di fianco all’albero di limoni, mi ha suggerito quello che dovevo fare. Quindi, andiamo con ordine:

100 gr di capunti aperti (o strascinati) di farina di legumi
1 manciata di pomodorini freschi di stagione
1 pezzo piccolo di ricotta fresca
1 limone
Menta selvatica
peperoncino
Aglio
Olio

Ho saltato in padella i pomodorini con uno spicchio di aglio, mezzo peperoncino fresco e un po’ di menta selvatica. Nel frattempo, mentre la pasta cuoceva, ho stemperato con l’acqua di cottura la ricotta e vi ho grattugiato la buccia di un piccolo limone mescolando ben bene. A cottura ultimata ho scolato la pasta lasciandola leggermente umida e l’ho aggiunta ai pomodorini in padella. Dopo averla saltata ho aggiunto la ricotta mescolata alle schegge di limone e una manciata di menta selvatica tritata grossolanamente. Saltato ancora e poi impiattato terminando con un filo di olio e una spruzzata di parmigiano appena grattugiato.
In Lucania i “capunti aperti” sono i nostri strascinati. Quelli che ho utilizzato io sono del Pastificio Di Carlo (pastificio lucano). Propriamente il nome è associato ai capunti fatti in casa di cui si distinguono quelli “aperti” da quelli “chiusi”. Questo tipo fatto con farina di legumi (fagioli, ceci e lenticchie) è molto saporito, dal colore scuro e ricco di fibre. E le fibre ci stanno bene in questo periodo dell’anno in cui spesso ci si sente appesantiti e un po’ svogliati.A completare tutto la menta e le schegge di limone.. queste ultime danno “colore” al retrogusto piccante del peperoncino, mentre la menta (consiglio a tutti di tenere una varietà di erbe fresche fuori al giardino – si tengono bene e facilmente anche sul balcone) ne ammorbidisce “il fuoco” rammentando che è tempo d’estate.