martedì, novembre 28

La lingua nel piatto, le ricette per imparare a capire l’inglese (e gli inglesi)


Cercavamo degli spunti qui al Maiale Ubriaco, notizie, curiosità, qualcosa insomma che avrebbe stuzzicato la nostra attenzione e naturalmente quella di voi lettori.
Qualche sera fa torno a casa da lavoro, decido di stappare una bottiglia di Aglianico (ad essere precisi un Donnaluna del 2005 viticoltori De Concilis) e cucinare come di consueto una cenetta molto italiana. Fra un sorso e l’altro, con un occhio ai fornelli e l’altro al giornale, mi salta agli occhi la notizia secondo cui proprio dall’Inghilterra sarebbe partita un’iniziativa editoriale davvero interessante. Renata Beltrami, giornalista e insegnante, e Silvia Mazzola, storica dell’arte, italiane a Londra ormai da anni, avrebbero dimostrato che la cucina inglese non soltanto esiste, ma che ci si può addirittura scrivere un libro.
Nel testo d’esordio La lingua nel piatto, ricette per imparare a capire l’inglese e gli inglesi (Mursia Editore Milano – www.mursia.com) le scrittrici di origine milanese hanno deciso di farci conoscere le delizie e le tante sfumature della cucina britannica, mettendo in discussione uno dei tanti archetipi della cultura moderna e sostenendo, a ragion veduta, che in Inghilterra non si mangia male, anzi.
Addirittura The Times si dice soddisfatto e gratificato dal fatto che queste due milanesi abbiano lanciato una campagna “volta-tavolo” cercando di iniziare gli italiani alle gioie della British cooking.
Cerchiamo di capire come nasce l’idea e quali gli obiettivi prefissati da chi scrive. Cito testualmente: “ Questo libro vuole essere uno strumento prezioso e flessibile per il viaggiatore timoroso, l’anglofilo curioso e il gastronomo erudito e non. Per tutti coloro che vogliono provare gusti nuovi e ascoltare storie antiche; per chi ama l’inglese e vuole assaggiarlo nelle sue forme e nei suoi sapori e poi riproporlo agli amici con tanto di citazioni”.
Proprio cosí, un’utile guida che fa della cucina il suo punto cardine, ma che è piú di un ricettario in quanto unisce attraverso i piatti tipici della tradizione, storia e racconti di una realtà millenaria, senza tralasciare utili lezioni di lingua…of course!
Si parte dal breakfast, passando per lunch, afternoon tea e dinner. Un prezioso excursus per capire cosa e come mangiano gli inglesi, quindi il loro approccio alla tavola, etico, culturale e linguistico. Leggendo si scopre che la colazione è un momento molto intimo della giornata e si svolge in assoluto silenzio. “Il massimo che vi verrà chiesto è ‘Caffè dolce o amaro? Una o due uova ”. Si perché per un inglese il mattino non è il momento adatto per farsi due chiacchiere e ostentare la propria personalitá. D'altronde pure Oscar Wild scriveva “Le persone monotone sono perfette a colazione”.
Si scopre una Gran Bretagna non fatta di soli roast beef e fish and chips, ma di tante piccole specialità custodite avidamente nella tradizione culinaria locale. Per citarne qualcuna potremmo ricordare dolci come tricle tart e sticky toffee pudding o prodotti caseari unici come lo Stilton ed il celebre Cheddar (in tutte le sue varianti e punti di stagionatura) o ancora l’ idromele, prodotto artigianalmente nelle segrete terre del Dorset.
Fra le curiosità, onde evitare spiacevoli sorprese a tavola, le autrici spiegano che il black pudding non è una delizia di cioccolato, ma una salsiccia di sangue di maiale e rognone e che il welsh rabbit non è un coniglio gallese, ma una fonduta di formaggio servita su una fetta di pane caldo. Ci sarebbe tanto da raccontare ed il Maiale Ubriaco ha intenzione di approfondire il discorso con racconti, ricette e viaggi in un paese che ha davvero tanto da svelare. Nel frattempo il testo ci sentiamo di raccomandarlo. La lingua nel piatto, una guida cultural-culinaria per arrivare preparati all’altra parte della Manica.

lunedì, novembre 27

gnocchi di ricotta caprina con sugo di porcini

In questo periodo dell’anno le terre del Cilento sono ricche di funghi porcini e molte sono le sagre organizzate per celebrare ed esaltare il prodotto. Fra queste negli anni una in particolare mi ha colpito, sia per la sua abbondanza gastronomica che per l’esaltazione delle tradizioni in essa tramandate da anni. Si tiene a Castelcivita, un piccolo borgo medioevale nel cuore del parco nazionale del Cilento. Qui il porcino viene portato sulle strade, le porte delle abitazioni vengono aperte al pubblico e le donne si adoperano alla preparazione di saporite ricette in cui il porcino la fa da padrone. L’intero paese si apre ad una processione di curiosi, veterani, buongustai che fra danze, canti e riti religiosi celebrano e gustano il prodotto.
Noi vi proponiamo una gustosa ricetta in cui viene usato anche un altro prodotto tipico locale, la ricotta di capra cilentana.

Gnocchi
500 gr. ricotta di capra
200 gr. farina
4-5 cucchiai mollica di pane
sale
noce moscata

Sugo
250 gr. funghi porcini
80 gr. burro
1 spicchio aglio
prezzemolo
½ bicchiere vino bianco

Per preparare gli gnocchi, unire insieme ricotta, farina e mollica di pane, salare ed aggiungere un pizzico di noce moscata. Quando l’impasto avrà raggiunto la giusta consistenza, distenderlo in cilindri dal diametro di 2cm che taglierete in forme di 2-3cm l’una. A questo punto premere gli gnocchi con un dito sul piano infarinato o sul dorso di una forchetta se volete ottenere la classica forma rigata. Lasciateli riposare per circa 30 minuti.
Nel frattempo per salsa, far sciogliere il burro in una padella capiente ed aggiungere l’aglio che andrà soltanto ammorbidito. Aggiungere i funghi porcini precedentemente lavati e tagliati a pezzi e proseguire la cottura per circa 8 minuti. Salare, aggiungere prezzemolo, vino e lasciare ridurre per qualche minuto.
Portare l’acqua ad ebollizione i una pentola capiente e versarvi gli gnocchi delicatamente che andranno a cuocere per circa 2 minuti prima di essere scolati. Aggiungerli alla salsa di porcini e saltare in padella aggiungendo un’abbondante manciata di scaglie di parmigiano. Servire il piatto ben caldo.

martedì, novembre 21

Il Maiale Ubriaco a Berlino - II° appuntamento: pane&dolci, vinerie e ristoranti italiani

Una delle cose di Berlino, ma direi della Germania tutta, che attraggono gastronomicamente a primo impatto è la quantità oltre che la qualità di pane prodotto. Il pane tedesco è tra i migliori d’Europa; ne esistono più di 200 varietà e l’importanza del fenomeno è anche testimoniata dal fatto che a Ulm, piccolo nucleo urbano della regione del Baden Wurttemberg, esiste un museo dedicato al pane in cui è possibile osservare tutti gli strumenti utilizzati per la panificazione, dai tempi antichi sino ad oggi; ripercorrere la storia delle varie carestie e razionamenti alimentari; scoprire le modalità di sfruttamento dell’immagine del pane adoperate nella propaganda politica nazista. Mi par ovvio notare quanto sia “antropologico” tutto questo, quanto e con che forza (lo abbiamo sottolineato altre volte ma rimane cosa importante) il cibo segna il percorso umano sulla mappa della riconoscibilità sociale e della formazione dell’identità individuale.

Il primo pane mangiato a Berlino è stato quello servito a colazione nel mio albergo. Ben quattro, a volte cinque tipi di pane che si alternavano di giorno in giorno nell’arco della settimana: tutti pani integrali, di cumino, di girasole, di lino, alle noci, anche al formaggio (Kaese Auflauf). Proviamo a fare un elenco dei nomi e delle tipologie di pane più diffuse: Bauerbrot (pane casereccio); Mehrkornbrot (farine miste); Kartoffelbrot (pane alle patate); Roggenmischbrot (pane di segale); Sonnenblumenbrot (pane ai semi di girasole); Vollkornbrot (pane integrale); Weißbrot (pane bianco); Vitalbrot (pane energetico); Kürbiskernbrot (pane ai semi di zucca); Süßes Brot (pane dolce) Dinkelbrot (pane di farro). In giro per la città, ad ogni angolo, così come accade per la birra, per il kebab e per il currywurst und kartoffen, troviamo svariate panetterie (Bäker) in cui, oltre a poter scegliere tra diverse varietà , è possibile gustare pane integrale ripieno di prosciutto affumicato, salame e verdure. Uno su tutti il pumpernickel che ha origine in Westphalia, un pane di farina di segale cotto per lunghissimo tempo (fino a 24 ore), molto scuro e dal sapore dolce data la caramellizzazione dell’amido. Ho notato poi che alla Lidl vendono dei preparati per fare il pane: sono confezioni da 1 kg, costano poco più di 1 euro, va solo aggiunta dell’acqua. L’impasto rimarrà molto morbido visto anche che non necessiterà di una lunga lievitazione. Panetterie/dolcerie sono presenti anche nei pressi delle uscite metropolitane, all’interno, ed è molto gradevole uscire dal treno e fermarsi a prendere un pezzo di pane per spezzare la fame di metà mattinata. Cosa che volentieri ho fatto anche con i dolci, ricchi di panna o formaggio, sempre generose le porzioni. Nelle vicinanze della Ostbahnhof (stazione Est) ho assaggiato il famoso eierkuchen (dolce all’uovo), dolce berlinese molto simile alle crepes francesi. In Alexanderplatz, dopo un doner kebab e una birra, ho mangiato lo pfannkuchen, letteralmente “dolce in padella”, ma in realtà si tratta di un bombolone ripieno di marmellata o crema. Questo dolce è anche detto dai berlinesi berliner ballen, o solo berliner. Come non citare le torte di mele, esposte in grossi tranci che poi vengono tagliati e venduti a peso.

Le dolcerie berlinesi sono un pullulare di torte e singoli dolci, gallette alla frutta e krapfen. Molto spesso le vetrine assortite sembrano, per la perfezione dei prodotti e la rigorosità geometrica dei tranci, quasi finte o disegnate. Visto che ci avviciniamo al Natale, vorrei ricordare lo Stollen, tipico dolce natalizio della Germania e che a Berlino ho assaggiato fuori periodo e per caso. Una sera, di rientro in albergo, un gruppo di persone che fino ad allora avevo incontrato solo a colazione (presumo stessero lì per lavoro) festeggiavano non so cosa e ci invitarono a prendere una fetta di dolce (lo Stollen appunto) ed un bicchiere di liquore. Lo Stollen è fatto con uova, latte, zucchero e burro nell’impasto, poi condito con uva sultanina, limone e arancia candita, mandorle. E arriviamo alle vinerie, momento importante del mio viaggio. A Berlino c’è una modalità del bere vino e di stare in compagnia che non avevo ancora sperimentato: trattasi di locali in cui è possibile bere pagando, in uscita, la cifra che si ritiene appropriata in base al gradimento personale. Mi spiego meglio: in Veteranenstrasse, nel distretto di Mitte, sono presenti moltissimi locali e ristoranti. Tra questi, un po’ nascosta (non sono riuscito a capire come si chiamasse il locale – all’esterno nessuna insegna - ma l’indirizzo è il seguente: Veteranstrasse-Mitte,14), una vineria, ma direi piuttosto un’osteria, un “buco” insomma, in cui oltre a bere è possibile mangiare. Ci sono andato di sabato e a mezzanotte scoppiava letteralmente dal caos. Non sono riuscito a sedermi né a mangiare, ma ho potuto bere diverso vino, tedesco e italiano. Come funziona: entri, infili 1 euro in un pupazzo-salvadanaio e ti danno due calici. Di qui in poi bevi quello che desideri, considerate le molte bottiglie di vino aperte su bancone e tavoli. L’ambiente è estremamente vario e anche molto promiscuo. Un trans al bancone, con un parruccone stile afro, si occupava della clientela, mentre musica e fumo (in Germania si fuma nei locali pubblici) inondavano e insieme intontivano i presenti. Sono dispiaciuto di non aver potuto mangiare; i tavoli erano prenotati per più turni e le portate avevano un eccellente aspetto. Tutto cibo tradizionale e sostanzioso. Mi sono consolato con il vino e nell’ordine ho bevuto: Spatburgunder, vino rosso tedesco eccellente il cui nome indica il Pinot Nero; Lemberger, sempre rosso pregiato, secco e di corpo forte; Chianti e Merlot.

Per concludere acquavite autoprodotta. All’uscita si infilano non meno di 2,50 euro nel pupazzo (ognuno non può scendere al di sotto di questo prezzo) o quanto si ritiene “sia valsa” la propria bevuta . La mia considerazione istantanea è stata che, avessimo posti del genere in Italia, chiuderebbero 2 giorni dopo l’inaugurazione. Realtà come questa esistono e si mantengono proprio grazie ad una mentalità in cui coscienza e rispetto sono ai primi posti della scala valoriale. Lo “scrocco”, volgarmente detto, non è affatto contemplato nella mentalità nord europea. Di ristoranti italiani ce ne sono molti a Berlino, ma è difficile imbattersi in un “vero” ristorante italiano (esclusa l’alta cucina). Più spesso ci si imbatte in pizzerie che di italiano hanno solo il nome, o locali in cui hanno solo vino italiano; per il resto tutta la cucina è un triste miscuglio di ingredienti, cucinati da cuochi (??) turchi, arabi o giapponesi. Cercando cercando nei pressi di Rosenthaler platz, in Torstrasse 99, trovo un ristorantino molto distinto, tranquillo e appartato, dal nome Vino & libri – cucina italiana. L’ambiente, molto caldo ed invitante mi spinge ad entrare. Mi accolgono musica jazz e un’infinità di libri disposti all’interno di più librerie che arredano il locale. Il proprietario, un giovane sardo, ci fa accomodare non senza scambiare due chiacchiere con noi, miraggio italiano. In effetti la sensazione è stata proprio questa: sensazione che mi ha pervaso ogni qualvolta ho incontrato italiani che vivono e lavorano a Berlino. Uscendo fuori dal discorso tipico dell’emigrazione, quello che ho constatato in loro è stato un forte sentimento di nostalgia, misto ad una presa di coscienza in cui chiaramente si evincevano le forti necessità di vivere e lavorare in una città in cui tutto questo è possibile, spesso facile e rassicurante. Da Vino & libri ho notato (e mi è sembrato un atteggiamento esistente solo nei locali italiani) una scioltezza dei modi (mi riferisco alla clientela) ed una tranquillità del parlare che mi hanno subito rilassato. Non dico questo per nazionalismo o per luogo comune, ma i presenti, ai tavoli, ridevano e scherzavano assumendo degli atteggiamenti che in altri locali berlinesi non ho visto; locali in cui il brusìo e la discrezione sono caratteristica comportamentale distintiva. Qui ho mangiato bene e in abbondanza. Al tavolo ci hanno portato un abbondante cesto di pane (arabo e scuro), pepe, olio & aceto balsamico e dei piccoli pezzi di pane tostato con pomodorini e erba cipollina. Poi antipasto misto di verdure, formaggio, salumi e sott’oli; crema di zucca con amaretti & zenzero; flan di spinaci su crema di mascarpone & noci; semifreddo di caffè in salsa di vaniglia; tiramisù alla sarda. Il vino locale, un Merlot sfuso, era davvero molto buono; al dolce ho concluso con del mirto fatto in casa.
Tirando le somme e, finalmente, concludendo: Berlino era per me il mito che Wenders ha creato nel film che, forse, è uno dei più interessanti e magici degli ultimi vent’anni: Il ciel sopra Berlino. Se assumiamo che la realtà delude, e non per questo in senso negativo (l’uomo crea aspettative, illusioni e sogni proprio per vincere questa delusione; ma la delusione, capovolto il senso, può diventare coscienza del presente, del passato e del futuro), allora posso affermare che per alcuni aspetti ho vissuto una delusione. Gastronomicamente parlando, la città è una fucina di impressioni, sensazioni, odori e profumi tutti da scoprire. Quando ci ritornerò proverò a percorrere la strada della cucina etnica, girerò in lungo e in largo i mercati turchi, come quello di Türkenmarkt o Crellemarkt, entrambi nel distretto di Kreuzberg. Andrò oltre il doner kebab e assaggerò l’Ayran, una bevanda a base di yogurt. Il fatto è che non esiste una sola Berlino: la città, una volta divisa dal muro, è ora tante realtà che si sovrappongono e si incastrano. Le megalopoli del mondo sono percorse da questi incontri/scontri, da molte frontiere che separano ricchi, poveri, cibi, culture, vecchi, giovani. Berlino resta, come scrive Emmanuel Terray “il paradiso delle ombre” e, dice bene Augè, “nonostante la sicurezza ostentata dagli edifici di Potsamerplatz e la continua attività dei cantieri, il senso di attesa e talvolta malinconia che suscita l’incompiutezza della città (…), si associa qui a un timore vago e irragionevole: il timore che le follie del futuro, le follie del secolo nel quale siamo da poco entrati, siano pari a quelle che oggi cerchiamo di scongiurare commemorandole”.

venerdì, novembre 17

marmellata di pere & noci


Un'altra conserva preparata nei ritagli di tempo tardo-domenicali. E' l'idea del conservàre ad avvolgere la preparazione. Letteralmente tenere qcs. in modo che non si sciupi, preservare. Il pensiero partecipa allo svolgimento rituale di una "preparazione"; guarda già all'altrove, luogo indatabile in cui il "preparato" si consumerà, estinguendosi progressivamente, per saziare bocche & palati ingordi. Il Maiale Ubriaco propone un appetibile accostamento, di sapore contadino (ma mi verrebbe "contadinesco") : marmellata di pere & noci. Gestiti gli ingredienti, tentate gli abbinamenti, preferibilmente con formaggi stagionati, pane in crosta e vini che lascino i denti color vinaccia.

Ingredienti:

2kg di pere William
20 noci sgusciate
850 gr di zucchero
1 cucchiaino di cannella in polvere
riposo: 12 ore
cottura: 1 ora e 20 minuti

Lavare le pere ed asciugarle con cura.
Sbucciarle, eliminare i torsoli ed i semi quindi tagliarle a spicchi.
In una terrina riunire le pere e lo zucchero e lasciare riposare per 12 ore.
Trasferire la preparazione in una casseruola e portare ad ebollizione. Aggiungere noci e cannella, abbassare la fiamma e, mescolando e schiumando, portare a cottura fino a raggiungere la giusta densità. Mescolare ben bene e versare la marmellata calda nei vasetti facendo attenzione che le noci vengano equamente suddivise. Procedere con la consueta pastorizzazione.

martedì, novembre 14

Il Maiale Ubriaco a Berlino - spostamento dell’Asse e primo resoconto: cucina di strada & cucina popolare

A Berlino ci sono andato in due modi e per due motivi:
da Maiale Ubriaco e da feroce appassionato che fugge tutti i movimenti e i luoghi (anche comuni) che il turismo di massa ha creato; per la fotografia e per Wim Wenders.
Marc Augè, insieme con Lévi Strauss, Balandier e Condominas, ha osservato acutamente che “bisogna ritornare per scrivere, quanto meno ritornare a casa”.
Che si instauri una distanza, doppia, tra il luogo osservato e la scrittura. Modo, unico, per decifrare tutte quelle sensazioni che a caldo non sempre si riesce a tener presente. E a Berlino io ci sto ancora pensando e ancora ci penserò fin quando non avrò la possibilità e la necessità di tornarci. Alla base del mio riflettere sta una più remota riflessione – che a molti apparirà scontata – e che riguarda la caduta del Muro. Il confine tra Est ed Ovest non si cancellerà mai. Ad un Ovest ricco di sperimentazione architettonica, totale ricostruzione ed ultra modernità, si contrappone un Est malinconico, “vecchio” e decadente. La fitta presenza di Turchi e Russi, in alcuni quartieri, insieme ai loro meravigliosi mercati e bazar; i lunghi viali costeggiati dalle rigide strutture dei palazzi-agglomerato e i quartieri (Majakowskiring in Pankow) delle ville borghesi appartenute ai dirigenti della DDR fanno di quest’altra faccia della città, la zona, a mio avviso, più vera ed interessante.
A Berlino è facile mangiare. Sono innumerevoli i posti in cui ci si può fermare per bere una birra (la Berliner è la birra popolare), divorare un wurstel con senape o un fettone di torta (diffuso il baukuchen: strati di biscotto e crema di cioccolato) . In questo primo resoconto (al quale seguirà una seconda parte) mi soffermerò proprio su questo tipo di realtà. Tutti oramai conoscono la filosofia del Maiale Ubriaco; se avessi voluto mangiare nei locali “in” della Berlino Europea, forse avrei scalzato la possibilità di avvicinarmi al popolo, al berlinese-tipo (ammesso che ce ne siano), alla gastronomia popolare. Devo subito precisare che a Berlino (ma è modalità nord europea) non esiste il pranzo vero e proprio come noi lo intendiamo. Non vedremo mai un berlinese tornare a casa e mettersi a cucinare, magari primo e secondo, per poi sedersi a tavola insieme alla famiglia. Più spesso, e quest’aspetto ha dell’affascinante perché spiega benissimo e talvolta segna, come su una mappa, le traiettorie degli attori sociali che si muovono all’interno della città, ci si ferma al volo per consumare un hot dog con senape e una birra, un piatto di patate o verdure saltate in padella, un dolce salato. Ho adorato, in Alexanderplatz, uomini con un vero e proprio barbecue elettrico a tracolla, che maneggiavano spostandosi con maestria servendo minute fette di pane riempite di wurstel o petto di maiale al modico costo di 1 euro: ketchup, maionese o senape a scelta. Altrettanti simili venditori servivano currywurst und pommes (salsiccia al curry con patate) od anche doner kebab e hamburger.
Nelle immediate vicinanze della Freie Universitat, a Dahlem, quartiere universitario, gli studenti amano fermarsi in piccoli locali dove è possibile gustare zuppe o piatti unici di carne, verdure e patate. Proprio a Dahlem (dove peraltro è ubicato uno dei più importanti musei Etnologici d’Europa) ho preso una zuppa di verdure miste con wurstel a rondelle; birra (Berliner, che trovo molto buona) e un tegame di patate al forno in sfoglie sottili, ricoperte da un’insolita piramide di verdure miste e funghi, il tutto ulteriormente ricoperto di formaggio Emmenthal.
Forse queste dinamiche “mangerecce” trovano spazio perché la colazione (frühstück), eccellente ed abbondante, la fa da padrona. Cosa non ho mangiato al primo mattino: salumi e formaggi, pane di segale, uova sode o strapazzate, marmellata di prugne, latte, succhi di frutta, yogurt e caffè (sul caffè inutile dire che trattasi di “beveroni” al sapore di caffè ma molto gradevoli soprattutto se allungati con il latte che è buonissimo). In giro per le strade (ad Ovest ricordo facilmente nei pressi della chiesa neoromanica Gedachtniskirche – Ku’damm, Charlottenburg) ho trovato gazebo internamente attrezzati di griglie e fuochi sui quali, in giganti padelle d’acciaio, cucinavano verdure e carni: lombatine con verdure, maiale alle carote, frische wurst (salsiccia fresca) che è un piatto tipico e spesso lo si vede accompagnato con crauti e salsicce di fegato. Nelle immediate vicinanze, in un altro gazebo questa volta dedicato alla birra, spillavano Berliner ed una leggera chiara con succo di lampone. Non ho mangiato pesce, che pure se ne trova, diffusissimo e cucinato in svariati modi.
A Berlino ho speso il mio tempo camminando, fin quando gambe e piedi non imploravano una sosta; ho cercato il cibo più stradaiolo e tradizionale, quello che, a mio avviso, d’impatto poteva riportarmi alle usanze gastronomiche locali. Non di meno ho approcciato la cucina locale mangiando nelle birrerie e nelle piccole osterie, come nel caso di Spandau (estremo Ovest) e Prenzlauer-Berg (centro Est). Con lo stesso spirito ho desiderato vedere ciò che gli studenti e i giovani in generale bevono e mangiano, addentrandomi nei quartieri universitari e nei palazzi occupati da punk (o il loro lontano ricordo), giovani “artisti”, musicisti, fotografi, pittori e scultori. Nei centri occupati, dove sale per esporre e piccoli spazi sociali sono auto-gestiti, spesso ho sostato in bar e “dark-market” (la scena musicale metal è molto presente) dove il piatto unico a base di carne e patate + birra è la realtà gastronomica più persistente (ma è questo cibo che maggiormente e monotonamente si ritrova un po’ dappertutto). Ottime le patate lessate intere e con tutta la buccia, con salse aromatizzate o piccanti. Tali salse (dall’aspetto di una maionese “slegata”, molto liquida e profumata) ricoprivano per intero la patata che poteva mangiarsi con un piccolo cucchiaio, intingendo il boccone nella salsa. Avrei desiderato soffermarmi per più tempo nei mercati e nelle cucine turche, molto presenti nel distretto di Kreuzberg: per intenderci il quartiere del Checkpoint Charlie. Ma, come ho già specificato, la mia attenzione si è rivolta al locale-sociale. Berlino è una città ricca di contraddizioni, talvolta ravvisabili anche nella cultura gastronomica. Non è facile cercare la tradizione all’interno di un agglomerato urbano che è diventato insieme rifugio e punto di riferimento di molte etnie che convivono e si mischiano in quello che François Laplantine definisce métissage. E non è facile, ne forse possibile, andare alla ricerca della tradizione in soli dieci giorni. Ma non discuto l’amore, la curiosità e la passione che mi hanno spinto al tentativo. Del resto questo spazio aperto che è Il Maiale Ubriaco aspetta certo anche di essere riempito dai vostri commenti, suggerimenti e critiche.
Nella seconda parte parleremo di: pane & dolci; vinerie e ristoranti italiani. Perché di italiani a Berlino ce ne sono tanti; tutti perfettamente inseriti, tutti riconoscibilissimi, tutti nostalgici delle abitudini e della gastronomia italiana.

mercoledì, novembre 8

marmellata di zucca & amaretti


Portare e tenere in casa i sapori e i colori di un'invitante banco di frutta e verdura. Questa idea mi accarezzava da tempo. Ho pensato così di realizzare alcune conserve da tenere in dispensa e tirar fuori per l'occasione, magari all'acquisto di una buona bottiglia o di un eccellente salume o formaggio. Questa marmellata di zucca & amaretti fa parte di una piccola quanto appetitosa serie di conserve realizzate nei ritagli di tempo la domenica pomeriggio. A testimonianza di quanto sia facile (e divertente) preparare le conserve sottovetro.

Ingredienti:
1 kg abbondante di zucca
1 mela
400 gr di zucchero
50 gr di amaretti polverizzati
la scorza di 1 limone

Pulire e tagliare la zucca a pezzetti con la mela. Grattugiare il limone quindi porre lo zucchero in una casseruola insieme con la frutta e il limone e mettere sul fuoco. Cuocere fino all'addensamento, aggiungere gli amaretti polverizzati e portare avanti la cottura per altri cinque minuti. Spento il fuoco invasare la marmellata negli appositi vasetti, quindi procedere con la pastorizzazione. Abbiamo abbinato questa marmellata a dell'ottimo pecorino di Moliterno.
Ci è piaciuto accompagnare il tutto con semplici crostoni di pane (olio extravergine, sale e semi di sesamo) ed un bicchiere di Aglianico Cantine di Venosa.