martedì, novembre 24

Chiacchiere d'autunno: nostalgia dell'aver freddo.

Questa rubrica è un'altalena.
Si rinnova al ritmo dei pensieri e delle idee che trovano spazio sui taccuini della mente, dentro la massa adiposa dell'ebbro suino che svogliato se la cammina, se la beve e se la mangia. Poi si addormenta, cadendo in letargo cullato da sonni etilici, etiliche visioni. Al risveglio la lucidità che rimane è imbarazzante: frastornata dal vento di dentro che incontra e scontra quello di fuori. Il vento timido e costante di una Milano ancora calda e per questo atipica. Neanche il freddo è più quello di una volta, eh già. Al Design Cafè della Triennale, luogo di cultura e comunicazione, servono aperitivi a base di zucchine e melanzane. In pieno novembre, ed in piena temperie Expo. In una città dove inseriscono nell'elenco dei candidati all'Ambrogino d'oro Carlo Petrini. In un'epoca, questa, in cui il mondo intero è impegnato ad affrontare il tema della nutrizione e le grandi sfide dell'alimentazione per costruire il futuro, attraverso la promozione di un cibo locale e di stagione. Sempre la solita storia si. Dalla cucina della Triennale io, invece, mi aspetterei sfornate di risotti e ossobuco, tronchetti di polenta, funghi, carne di maiale, gorgonzola, broccoli e nocciole, mascarpone lodigiano e un bel bicchiere di Bonarda. E mentre il Gambero, avrete sentito, recensisce ristoranti inesistenti, da qualche altra parte l'idea che l'acqua possa essere privatizzata fa pensare che un diritto si trasformi in una merce. Ad abbracciare questi fatti, accadimenti, considerazioni, gli echi preoccupanti provenienti dal Vertice Fao, dove si è discussa la possibilità di istituire un codice di condotta per regolare l'accaparramento delle terre da parte degli investitori stranieri nei confronti dei piccoli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo. Che tempi. Che bagarre. Già, come se prima fosse meglio. Ma prima è sempre meglio. In realtà il tempo trascorso regala nostalgia e rimargina ferite, fino al punto di tornare a percepire il presente come peggio dei tempi di una volta. A me piace pensare che siamo sull'orlo di una nuova rivoluzione. Del resto gli strumenti ce li abbiamo tutti. Nuovi guru e pure qualche totem. Cosa significa promuovere il cibo locale e parlare di città globale, come fa Milano, dove tutti, immigrati compresi, hanno diritto a realizzare la propria cultura materiale? Qualcuno dice, la nostra è una città Mondo. Allora dovremmo dare terra per vedere realizzate le culture materiali di tutti. Offrire spazio per esserci ed essendoci e coltivando nutrirci. Non fa una piega, per carità. Anche se questa consapevolezza, che è prima di tutto dei liberi pensatori, poi degli urbanisti, dei letterati e qualche volta dei politici, dovremmo poterla percepire tra le pieghe del quotidiano. Ed io sento che non è proprio così. Che ci sono sogni che sono stati abbattuti mentre altri non sono stati aiutati a crescere. Che le mafie governano i mercati e le sciure di Brera non hanno mica tanta voglia di bazzicare con collane ed orecchini, pellicce e cappellini dentro una città Mondo, gonfia di etnie, densa di odori e profumi diversi. Figuriamoci i loro figli e nipoti. Bisognerebbe ricordare loro che se non ci fossero le mondine cinesi a diserbare manualmente i campi nelle risaie di Novara, non si potrebbe garantire la produzione nazionale. Stessa cosa per il Parmigiano. I casari stranieri, come ce ne sono ad Antreola, provincia di Parma, garantiscono le eccellenze alimentari del nostro Paese. Sono circa 129 mila i lavoratori agricoli stranieri nel Belpaese. Stiamo parlando di quelli regolarmente registrati all'Inps. Ciò dipende anche dal fatto che gli italiani non vogliono più svolgere determinati lavori. Cosa interessante è che molti dei lavoratori immigrati iniziano a guadagnare ruoli di responsabilità nei lavori legati alla produzione di marchi Dop e Igp. Stiamo assistendo ad un cambiamento culturale molto importante. Gli stranieri acquisiscono il patrimonio delle conoscenze tradizionali storicamente trasmesso di generazione in generazione dentro le famiglie italiane. Patrimonio che altrimenti rischierebbe di scomparire. Questa successione delle tradizioni e delle culture materiali riempie un vuoto lasciato proprio da noi italiani. Io intanto osservo il tempo cambiare. In poche ore s'è riempito di nebbia. Mamma mia. Saranno state le mie riflessioni? I widgets del meteo sul mio Mac indicano sole pieno giù a Napoli e a Roma. Qualche sera fa pensavo alle città del nord dove c'è assenza di mare. E' come non avere mai la possibilità di contemplare l'infinito. Se sali sul Duomo contempli un paesaggio che tende all'infinito - almeno fotograficamente parlando - ma è sempre tessuto urbano. Nelle città di mare c'è la possibilità di lasciarsi l'urbano immediatamente alle spalle e ritrovarsi dentro un'apertura tipicamente leopardiana. Mi sono chiesto se ciò abbia un influenza sugli uomini, sui loro caratteri, sui modi del vivere, sulle tradizioni. Potremmo dire che nelle città di mare trionfa uno sguardo orizzontale mentre dove il mare non c'è l'unica via di uscita è il cielo, realizzandosi così uno sguardo verticale. Beh, son derive, derive della mente. Questa piccola non-antropologia finisce qui. Mentre nuove idee si fanno pensieri sfumati e la nebbia di Milano, diaframmando un pò con gli occhi socchiusi, a guardarla sembra mare. Mare in tempesta. I cavalloni d'autunno sulle spiagge di Maratea.
Stefano Tripodi
foto: Stefano Tripodi
© 2009

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lunedì, novembre 2

Budino di zucca & caramello

La zucca nel post! Cari lettori, ultimamente si parlava di stagionalità, territorio e cibo inteso come espressione culturale. Cibo vissuto, radice storica, atto estremo di socializzazione. Cosi oggi avremmo pensato ad un frutto strettamente legato alla tradizione popolare, grossa bacca carnosa dai molti semi e filamenti molli, creatura fiabesca, qualcuno lo chiama maiale dei contadini poveri. E siccome del maiale non si butta via niente (meno male) immaginatevi l’uso smisurato che della zucca riusciamo a fare nel nostro paese. Oltre alla polpa, utilizzata per risotti, zuppe, sformati e creme, i semi possono essere abbrustoliti e salati in superficie (i bruscolini della tradizione laziale) e la buccia affettata, bollita e fritta. La lista dei piatti sarebbe bella lunga dal pancotto marchigiano, ai tortelli lombardi per arrivare ai ficatu di sette cannuola di Palermo (questa la dovete provare). Io ho scelto un dolce, utilizzando una zucca comune o d’inverno, ma consiglio caldamente di provare delle varietà altrettanto pregiate come la Marina di Chioggia, la Mantovana e se siete al Sud la Lunga di Napoli! Vi lascio alla ricetta e alla poesia di un simpatico poeta scoperto per caso nei meandri della rete. Un abbraccio.

Daéa semensa impiantà
‘na succa cressarà,
là torno el
leamaro
o in cao aéa piantà.
Ghi nè de tanti tipi e gusti.
Suche bone cresse nel duro,
nel morbio soéo par darghe da magnare ai mas-ci.
‘Na volta se parlava de suche anca a scoéa,
i maestri bateva par vedare se a succa jera voda.
Aéa festa dei morti
la succa se svodava
rento un lumin se impissava
nel balcon se afaciava,
quanta fifa se ciapava
par la zente che passava.
La succa nasse in primavera,
cresse d’està,
la more in autunno.
La succa sà de fiò soe stae,
sora la stua a scaldare
mentre a zente jera a sgrafojare [Valerio]

Ingredienti x 6 persone

500 gr di zucca
2 uova
1/2 stecca di vaniglia
1/2 litro di latte
3 gr di zucchero

Lessare la zucca in acqua bollente, scolare e lasciare asciugare in forno. Sbucciarla, eliminarne i semi e passarla al passaverdura. Bollire il latte con 200 gr. di zucchero e la vaniglia, lasciarlo intiepidire e poi unirlo alla zucca e alle uova battute. Intanto caramellare il restante zucchero e distribuire sul fondo degli stampini, aggiungere il composto di zucca e cuocere in forno a bagnomaria, 180 C per circa un’ora. Lasciar raffreddare per qualche ora, sformare e servire.

Tratto da [L’orto. 720 piatti dall’aglio alla zucca – SlowFood Editore 2005]


Remo Morretta

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