domenica, febbraio 25

Zitoni con ragù di braciola di capra

L’allevamento delle capre è tradizione in quel di Siano, piccolo centro abitato in provincia di Salerno. La sagra della braciola di capra (sabato e domenica precedenti il 16 agosto) è il momento principe per gustarne la carne preparata nelle classiche braciole. La ricetta che vi proponiamo proviene direttamente dall’esperienza di Mario Nocera, di cui tanto abbiamo parlato nell’articolo precedente. Quando sono andato da zio Mario per assaggiare questo piatto e seguirne tutte le fasi in cucina, ho pensato bene di portare con me, oltre che la mia signora, anche un caro amico dall’appetito mai sazio. Gli ho telefonato, chiedendogli se intendeva accompagnarmi. E’ rimasto un attimo perplesso dietro la cornetta, dicendomi che proprio non poteva poiché era appena iniziata la Quaresima. Ma, incuriosito, mi ha chiesto cosa andavamo ad assaggiare. Quando gliel’ho detto ha esclamato: “aaaah…e vabbè, il Signore certo capirà!” E così ci siamo incamminati alla volta del ristorante di zio Mario, il quale ci aspettava per incominciare la preparazione. Abbiamo stappato una bottiglia di Piedirosso e lo abbiamo accompagnato con delle focacce ripiene di prosciutto e funghi (chiodini e porcini) appena sfornate. Il resto del tempo è trascorso in cucina, tra mille chiacchiere e nuovi aneddoti americani. Trascorso il tempo necessario e fatte le foto di rito abbiamo finalmente assaggiato questo tipico piatto campano. Eccezionale nei sapori della carne e del ragù, ottimo con gli zitoni, è possibile abbinarvi anche i più famosi paccheri di Gragnano. Il risultato comunque è il medesimo. Un’altra tipicità, un altro grande momento di tradizione che desideriamo divulgare anche e soprattutto per quanti ancora non conoscono i prodotti e le specialità del nostro territorio. Un ringraziamento particolare va innanzitutto al caro zio Mario, ai presenti con me quella sera, a Romano che so essere stato con noi con il cuore, a tutti quanti credono nella cucina schietta e sincera, oltre che di tradizione, cucina di cui il Maiale tenta di farsi portavoce. Buon appetito!

Ingredienti x 4 persone

500 g di penne zitoni di Gragnano
2 kg di carne di capra (coscia o spalla)
2 kg di pomodori pelati
¼ di pecorino stagionato
aglio
basilico
prezzemolo
olio extravergine
sale e pepe q.b.

Ricavare degli involtini di carne di 200 g ciascuno farciti con un trito di aglio, prezzemolo, pecorino, sale e pepe. Legarli con dello spago da cucina. Preparare un bouillon con ½ litro di vino bianco, 1 cipolla e 1 limone. Cuocervi le braciole per 20 minuti poi rosolarle in un tegame da ragù con abbondante cipolla tritata grossolanamente. Aggiungere il pomodoro passato e 2 bicchieri di vino bianco. Cuocere per 2 ore circa fino a cottura ultimata. Lessare la pasta al dente quindi impiattare avendo cura di porre in ogni piatto un pezzo di braciola e una manciata di scaglie di pecorino.
bouillon o court bouillon: fondo di cottura. In genere si indica col nome bouillon (dal francese - brodo ristretto) una preparazione liquida aromatizzata utilizzata per lessare pesci o crostacei. In cucina il nome indica, in maniera più estesa, brodi o fondi di cottura in cui bollire gli alimenti.

venerdì, febbraio 23

La cucina umorale di Mario Nocera

Quando due anni fa un mio caro amico mi portò a mangiare da zio Mario non immaginavo di potermene letteralmente innamorare. E’ difficile spiegare quello che nel tempo hanno rappresentato per me la sua cucina e la sua persona. Io che vivo in una città che ha esposto la bandiera della globalizzazione sulle terrazze del Comune, regalandosi centinaia di pizzerie, pub, locali notturni e ristoranti il cui richiamo estetico predomina sulla qualità dei cibi e del servizio, ho trovato in Mario un rifugio, la convivialità della tavola – elemento indispensabile per noi del Maiale – una qualità eccellente e nessun pregiudizio di approccio. La storia di zio Mario è grande quanto la sua mole, gigante buono che mi ha sorpreso giorni fa quando alla proposta di una recensione ha risposto con quattro grandi fogli scritti di suo pugno. Zio Mario, mancino come me, racconta la sua storia, una storia fitta fitta di emozioni e passione. Nato a Siano nel 1963 – anno in cui Kennedy muore assassinato e i Beatles pubblicano Please please me facendosi conoscere da tutto il mondo – fin da piccolo studia e lavora in quella che lui definisce una “comunità-villaggio” in cui tutti si conoscono. Sono gli anni 70 e la comunità sianese è famosa per la braciola di capra e la percoca nel vino. Mario passa la sua giovane età nelle pasticcerie e nei forni del paese dove impara a cucinare pastiere di grano, farinate e pane biscottato. Cucina anche per gli adulti, stipati nei bar a giocare a carte e a bere vino; di lì a poco sarà indicato da tutti come il cuoco di giornata. Più tardi prenderà in gestione il ristorante Portico anagrammando il nome e cambiandolo in Tropico. Questo particolare racchiude in se il germe del grande cambiamento che Mario si troverà ad affrontare dieci anni più tardi l’apertura del ristorante. Con Tropico affina la sua esperienza in cucina ed apre gli altri paesi dell’Agro-nocerino-sarnese alla conoscenza dei prodotti tipici del territorio. Mario, tra gli altri piatti tipici, cucina pizze, stoccafisso, percola e l’immancabile braciola di capra. Non è mai facile spiegare a chi non vi appartenga la cucina di un determinato territorio. La cucina è fatta di prodotti, certo, ma anche e soprattutto di uomini, di lavoro e ingegno umano. Di persone che, come zio Mario, sin da piccole trovano il senso del proprio operare dedicando ore e giorni e anni alla gastronomia e alla magia della buona cucina. Pian piano subentra in lui la voglia di cambiare, di fare altro e di più; il paese gli sta stretto e decide di andarsene. Vola negli Stati Uniti d’America. Si stabilisce a Boston dove lavora per un po’ imparando la lingua e facendosi apprezzare come uomo e come cuoco.
Siamo alla fine degli anni 80 e Mario si afferma come uno dei più interessanti chef del NorthEst. Riconoscimento che gli permetterà di aprire uno dei ristoranti italiani più rinomati di Boston:Terramia .

Votato Best Boston per sei anni di seguito e menzionato innumerevoli volte su Boston Globe, Boston Herald, Bon Appetit, Gourmet Magazine, Mario partecipa a molte trasmissioni televisive e radiofoniche ed in poco tempo apre e gestisce altri tre ristoranti: Antico Forno, Radici restaurant (Marriot hotel Danvers) e Taranta. Gli anni negli States sono anni di lavoro e soddisfazione, anni passati a diffondere il verbo della cucina italiana. Mario non evita di cucinare piatti tipici del Nord Italia, passando per gli stereotipi della cucina italiana all’estero: ravioli, risotto, tagliatelle, pollo, maiale e vitello. Ma è quando cucina il suo Sud che ritrova le proprie origini, i profumi e i sapori della cucina del suo territorio. Ho passato ore a chiacchierare con lui dei suoi anni “americani”. Mi ha raccontato il mito e la forza economica, attraverso parole semplici e di buon cuore. Ho visto i menù dei suoi ristoranti e i riconoscimenti e le menzioni sulle guide della città. Ho visto tutto questo sorseggiando Aglianico e guardandolo farcire pizze e calzoni, infornare bistecche nel forno a legna e saltare in padella verdure di stagione. Oggi zio Mario vive e lavora a Lancusi (Fisciano – SA). Dalle stelle alle stalle qualcuno direbbe con in bocca e negli occhi il sogno americano. La verità è che lui ha deciso di staccare la spina, di starsene per un po’ in contemplazione di se stesso, di guardare sua figlia crescere. Nel suo locale, affollato di amici e studenti, piccolo e confortevole, Mario aspetta il momento in cui – così scrive – potrà dissotterrare l’ascia di guerra e tirar fuori le pentole di rame doppio per prepararsi ad una nuova avventura. Interpretando con passione, emozione e sogni nuovi piatti della tradizione gastronomica campana. Così come già accade da più di trent’anni.
Avere il privilegio di scrivere di persone come zio Mario significa avere il privilegio di raccontare la storia di coloro che fondano l’identità gastronomica territoriale. Oltre i grandi cuochi di fama mondiale, oltre la cucina creativa e cerebrale, oltre e “prima” di questo c’è un fitto strato di uomini che lavora per la cucina attraverso la propria anima. Uomini che lavorano per il popolo e non per la piccola aristocrazia e borghesia. Uomini che pur toccando le stelle con le dita rimangono umili e cercano costantemente le proprie origini. Questo noi dobbiamo sapere quando scriviamo, mangiamo e stappiamo bottiglie. Quando ragioniamo di cucina e di vita in base al portafogli, quando da esperti gourmet affolliamo i ristoranti più costosi vestiti di boutique. Il luccichio medio borghese della mia provincia mi ha portato fino a zio Mario. Così vicino da poterlo guardare negli occhi e stringergli le mani sporche di farina. E non lo ringrazierò mai abbastanza. Ma ora è tempo di entrare in cucina. Vi attendo. Continua
Ristorante pizzeria "da Mario", via del Centenario, 282 Lancusi (SA), 347/16.44.146

mercoledì, febbraio 21

Antropologia del carnevale

Per fora per vicos it personata libido
Et censore carens subit omnia tecta voluptas
(Per le strade e per le piazze va il desiderio in maschera
e, privo di un censore, il piacere entra sotto ogni tetto)
G.B. Spagnuoli (Mantuanus), Fasti.
Martedì grasso. Carnevale. Salerno. Pioviggina. Meridionalità apparente, perlomeno non quella che ha fondato gli stereotipi del Bel Paese. Oggi qui - e a Napoli non voglio pensarci – la festa è strade stracolme di giovani lentigginosi che combattono una faida urbana a suon di uova, arance e limoni. Vince chi non si lascia colpire. Perde e si umilia agli occhi di tutti chi invece se ne torna a casa fradicio come un pulcino. Ma è lontana l’immagine della madre che accoglie e prepara un bagno ri (o re) -storatore. Così come sembra lontano lo spirito, il senso ultimo della festa del Carnevale. Ragionandoci sopra uova, arance e limoni, sprecati (ma lo abbiamo fatto tutti!?) per dar voce all’ identità bullesca di questi svezzati purosangue, simbolicamente già rappresentano, nel frutto, una umiliazione. Nel meridione il maiale morto, cucinato e “arreso” se ne sta al centro della tavola con un limone in bocca. Non è difficile, peraltro, riuscire a sentire tra la gente l’espressione sì proprio nu’ limone o, variante aggressiva, t’ sprem comm a nu’ limon! E così le nuove generazioni, il “futuro” d’Italia, se ne stanno lì a celebrare la propria giornata festiva dandosi coraggio e intonando – mi pare un retaggio (ed un miraggio) battagliero – inni calcistici come da vera e dura curva. Ma che diavolo è questo Carnevale, quali sono le sue origini e quali i significati simbolici legati al cibo? Andiamo per ordine.
Molti – ed io mi trovo d’accordo – fanno risalire le origini della festa all’età medievale. Ma prima ancora, ed è un dato importante, furono i riti per la fertilità della terra (tradizione precristiana – saturnali e lupercali) ad originare il tempo della festa. Alla base dunque, stanno i ritmi di nascita, vita, morte e riproduzione o, se si preferisce, resurrezione sui quali si costruisce la circolarità dell'esistenza. Il Tempo, quindi, la fa da padrone (fuori da qui diremo: sempre la fa da padrone). Il ritmo scandito dal Tempo e che organizza l’anno rurale (i repertori del folklore francese parlano di croyances calendaires) nei cicli ripetuti di Carnevale-Quaresima alla fine dell'inverno, ciclo primaverile di Pasqua e di maggio, ciclo di San Giovanni al solstizio d'estate fino all'autunno, ciclo invernale dei Dodici giorni e poi di nuovo il Carnevale, sottende tutto l’apparato festivo, prepara – fa da “terreno” – a quella che, dal Charivari fino alla danza delle corna di Abbats Brohley (Staffordshire) viene anche chiamata Festa dei pazzi. Questa ciclicità del tempo contadino fa della festa il momento collettivo, condiviso. All’interno di essa ed attraverso il rito di celebrazione, si trasferiscono le età della vita e le età della natura, i cicli del calendario. La festa è in se un momento di passaggio, mezzo attraverso il quale non solo ci si assicura l’esistenza del tempo (congiunzione tra fine e principio – ciclo) ma si distrugge, si uccide il vecchio anno per giungere alla nascita del nuovo, la nuova primavera, la conclusione del ciclo (della serie: Natura ti ringrazio per esserti nuovamente offerta). L’identità dell’uomo – dell’uomo in rapporto con il mondo – è così fondata. Ma questa identità per fondarsi nella sua dimensione collettiva ed individuale deve passare attraverso il rovesciamento delle regole dei comportamenti sociali. Giungere a nuovo ordine, concludere il ciclo, produrre identità, significa maschere e travestimenti, incoronazione del plebeo, piena autorità del folle. Ciò è egregiamente rappresentato, per quanti l’avessero visto, nella sequenza iniziale della Medea di Pasolini. Almeno una volta all’anno, almeno per un attimo, il popolo si prende burla del sovrano, gli sputa in faccia, lo deride. Lo fa per potergli essere servo tutto l’anno. Tutto accade nella dimensione festiva, momento in cui il popolo sembra impazzito. Urla, si dimena, sbraita, ride isterico, mangia eccessivamente. Martedì grasso. Si perché la dimensione mangereccia, l’abbuffata carnevalesca, rappresentano un altro momento principe per la formazione (ri-fondazione) dell’identità. E così come la famosa battaglia delle arance del Carnevale di Ivrea ha le sue origini nella lotta folle e necessaria di cui sopra, così l’eccesso di cibo imposto dal Cristianesimo indica l’inizio della privazione del periodo quaresimale. Carnem levare – Carnevale - prescrizione ecclesiastica dell'astensione dal consumo della carne.
In questo periodo si cerca di esaltare tutto cio' che in quaresima non sarà piu' possibile fare. Abbuffatevi, abbuffiamoci. Mangiare, divorare, eccedere. Durante la festa sono sospesi i normali poteri che vengono assunti da un “re del Carnevale”, solitamente un povero o un delinquente che ha piena libertà e che alla fine del periodo carnevalesco viene condannato a morte: la morte del Carnevale. Come afferma Glauco Sanga, più che di rovesciamento delle regole civili, si tratta piuttosto di sospensione. Alle maschere nere (diavoli – entità creativa) si contrappongono le bianche (angeli – ordine; trattengono, controbilanciano l’eccesso). Dell’eccesso di cibo fa parte principalmente la carne, quella di Maiale. E’ per questo che di fianco al Carnevale troviamo molte celebrazioni che riguardano il porcello. Proprio qui vicino, nei pressi di Ariano Irpino, a Vallesaccarda (Condotta Slowfood Baronia di Vico) è possibile assistere all’uccisione del maiale secondo antica usanza e giungere poi alla degustazione della prelibata germinella, razza allevata dalla Condotta e cresciuta nel territorio di Carife tra castagni e querci, con un regime alimentare regolato dalle stagioni. Ma non finisce solo nella carne questa nostra, antica, necessaria volontà di ammazzarci letteralmente di cibo (proprio per questo, anticipando, abbiamo pubblicato una ricetta leggera e depurativa come quella della zuppa di cicoria). Il cibo della festa è ricchissimo: chiacchiere, frittelle, sanguinaccio, risotto con la luganega, frappe, cenci, struffoli, cicerchiata, zeppole, lasagne, ragù con puntine di costata, friarielli, cannullilli e diavulilli, migliaccio, braciole e fegatini arrostiti, solo per citare alcune preparazioni regionali. Cibo come mezzo, cibo come strumento, cibo rituale, cibo sacrificio. In questo senso proprio il maiale – re del Carnevale – è vittima sacrificale di un rito che manca del momento di purificazione, perché la festa è festa della trasgressione, della parodia e del ribaltamento. Il maiale è propiziatorio col suo grasso e la sua carne e rappresenta il simbolo di una continuità spazio-temporale che dall’antico ciclicamente ritorna ad indicarci (illuderci) i moti e le fasi dell’esistenza, del compromesso umano al mondo, eternità sconosciuta e spaventevole. I giovani, il nostro futuro e tutti coloro i quali dilettano la propria anima chiacchierando di gastronomia e proponendo ora le proprie ricette carnevalesche, questo devono saperlo. Che il cibo è nutrimento ma anche un fatto culturale e sociale totale. Che in una festa come il Carnevale i profondi significati simbolici messi in atto fondano l’identità, che passato e presente si appartengono e che il Tempo e la sua rappresentazione sono radicati nella relazione tra uomo e natura e tra uomo e società. Che riflettere sulle cose significa poterle comprendere, poterle vivere e sopportare. Proprio come quando i nostri avi e agricoltori ringraziavano la Natura per tutto quanto essa donava. Ancora una volta.

domenica, febbraio 18

Zuppa di cicoria

- Che mangiamo domani a pranzo?
- Mmmm...non lo so...una zuppa!?
- Eh, una zuppa.. [sguardo pensieroso]
- Si potrebbe andare di buon mattino a S. Agostino e prendere qualcosa.
- Si a S. Agostino... [come per dire: ma sei scemo?] domani esco presto e ho cinque ore.
- Allora ci vado io, prendo il motorino..
- Ma nooo, prendo io una bella zuppa di farro al supermercato ???!!!
[eccolo mio padre]
- Una roba congelata? [annuisce] Non accadrà mai..o la mangerai da solo!
- Ma dai, sanno tutte uguali.. [saggezza femminile]
- Ah già, dimenticavo che qui abbiamo il maiale ubriaco..
- Non è questione di Maiale Ubriaco, è che potresti anche educarti, no?
- Vabbè fate voi, io esco...ciao maiale.. [sghignazza]
- Ma perchè non puoi andare da Carmine? [Il fruttivendolo sotto casa]
- Mamma lo sai che giù a S. Agostino c'è molta più scelta…e poi che ti cambia?
- E capirai, siamo a febbraio: carciofi, cavoli.. un po’ di bietole..
- Mah! Veramente io direi pure: cardi, carote, broccoli, cicoria, verza, finocchio, catalogna, cavolfiori, cipolle, funghi coltivati, indivia riccia, lattuga invernale, scarola, scorzonera, sedano e spinaci.
- Ok, ma allora cucini tu perchè io arrivo alle due passate.
- Va bene, la seduta è tolta. Ci vediamo a pranzo. Ciao.
- Ciao……… Stefano??!!
- Eh…
- E non facciamo che “magicamente” un po’ di verdura viene a fare 50 euro!!!
- …

E così di buon mattino a S. Agostino ci sono andato. Mentre scendevo lentamente per via dei Principati pensavo a quando lì il mercato non c’era perché il mare arrivava fin su alla via dei Mercanti. Parcheggiato il “motore” mi sono fermato ad ascoltare. Le voci dei venditori già rompevano l’aria incerta, le gole corroborate da caffè napoletano e poca grappa, le mani spaccate, gonfie e sporche di terra. In genere faccio un ampio giro perlustrativo e a chi mi chiede cosa voglio, rispondo che sto cercando di capirlo. Poi mi fermo, tocco alcuni pezzi, ne sento odore e consistenza. Questa volta ho trovato un bel banco, ricco di verdura e arance. Tantissime arance siciliane rosse e succose, ottime da mangiare ma anche da premere. In bella vista, un po’ più a sinistra, un’enorme quantità di cicoria di Gaeta (le Puntarelle) e Selvatica napoletana. Il tipo dietro il banco mi ha guardato, ci ha pensato, poi m’ha detto: chest è speciale, c’ faje na bella mnestr, oppure t’è faje olio, aglio e peperoncino!
Gli ho sorriso e ho risposto: “datemene due e due” indicando prima l’una, poi l’altra qualità. Ho pagato, poi ci siamo salutati con un cenno, entrambi soddisfatti. Lui per quello che si era immaginato parlandomi, io al pensiero della bella “cucinata” che avrei fatto poche ore più tardi. Il risultato, spero a voi gradito, è questa squisita zuppa di cicoria, profumata, depurativa e leggera. La cicoria, che si coltiva un po’ ovunque e per quasi tutto l’anno, ha origini antichissime e proprietà estremamente benefiche, depurative, per il nostro organismo. Citata 4000 anni a.c. nel papiro Ebers, uno dei più antichi testi egizi pervenutici, trova uso alimentare nel XVII secolo diffondendosi in molte varietà orticole. Un consiglio: se decidete di lessarla non buttate l’acqua, ma lasciatela intiepidire e poi bevetela, non prima di avervi aggiunto una piccola manciata di semi di finocchio.

Ingredienti x 4 persone

2 cespi di cicoria di Gaeta
2 cespi di Selvatica napoletana
50 g di Parmigiano Reggiano
1,5 lt di brodo di carne
1 spicchio di aglio
½ cipolla bianca
olio extra vergine
sale q.b.
2 uova

Preparare un classico brodo di carne con pezzi di pollo, manzo o vitello, carote , sedano, sale, pepe e un po’ di pomodoro. Lavare e tagliare a metà le foglie di cicoria e lessarle in abbondante acqua, poi tritarle ulteriormente in pezzi grossi. Saltarle in padella ancora croccanti con olio, uno spicchio d’aglio e mezza cipolla bianca tritata grossolanamente. A cottura terminata aggiungere una presa di sale. Porre la cicoria in una zuppiera insieme con le uova sbattute e il parmigiano e terminare versando il brodo caldo. Rimestare aggiungendo ancora parmigiano e servire con due crostoni di pane casereccio strofinati di aglio.

sabato, febbraio 17

Chiacchiere e sanguinaccio

Come recita un’antico proverbio contadino «del maiale non si butta niente» e noi, che di maiale modestamente ce ne intendiamo, siamo esattamente dello stesso parere. Anzi, visto che il carnevale si avvicina insistente ed é una di quelle festivitá in cui bisogna dare il massimo in cucina non solo a livello qualitativo, ma pure quantitativo, allora vi proponiamo due belle ricette dolci, saporite che a voi amanti della cucina sciué sciué come si dice a Napoli, ossia bella semplice, faranno impazzire.
Il sanguinaccio, una crema di cioccolato densa e carica di sapore, che nelle nostre zone è sempre stata sinonimo del dolce per eccellenza del carnevale. La ricetta originale, si percepisce dal nome, prevede l’utilizzo del sangue di maiale, che dona al cioccolato un retrogusto acidulo molto particolare. Oggi, dopo l’ormai noto divieto del 1992 dell’uso di sangue per la preparazione di prodotti alimentari in ambito commerciale, soltanto in alcune famiglie contadine, in cui continua il rito della macellazione casalinga del maiale, è possibile assaggiare la ricetta originale. Noi abbiamo trovato un’ottima alternativa che é quella di sostituire il sangue con del vino rosso. Provare per credere…e sopratutto leggere per capire!
I veri intenditori poi apprezzeranno e sapranno subito come utilizzare un’altra tipicità del periodo, le chiacchiere. La nostra é una delle tante versioni presenti in Italia, quella campana naturalmente, una ricetta che conservo da anni e ripeto ogni volta con immenso piacere. Naturalmente sarebbe bello raccogliere tutte quante le varianti al tema, quindi se ne avete…fateci sapere!

Sanguinaccio

500 gr. zucchero
50 gr. farina
100 gr cacao amaro
100 gr cioccolato fondente
100gr. pinoli
½ cucchiaino di cannella
1 busta di vanillina
¾ latte intero
½ bicchiere di vino rosso

Mettere in una casseruola lo zucchero, la farina, il cacao ed unire poco alla volta e mescolando il latte ed il cioccolato fondente, precedentemente sciolto nel vino rosso. Nella ricetta originale in realta’ il vino rosso ed il cioccolato fondente non sono presenti ma rappresentano oggi, come accennavamo sopra, un valido sostitutivo del ¼ di sangue di maiale utilizzato in passato.
Quando il composto sara’ bene omogeneo cuocere il tutto a fuoco lento, continuando a girare finche’ non avra’ raggiunto la densita’ di una crema.
A questo punto togliere il sanguinaccio dal fuoco, aggiungere la cannella, la vaniglia, i pinoli e lasciarlo raffreddare. Servire freddo.

Chiacchiere

500 gr farina
100 gr zucchero
50 gr burro
3 uova
2 cucchiai di Marsala
1 limone
vanillina
zucchero a velo
Olio di semi per la fritura

Versare sulla spianatoia la farina, lo zucchero semolato, una bustina di vanillina e la scorza grattugiata del limone. Unire gli ingredienti a fontana e aggiungere al centro tre uova intere, il burro leggermente ammorbidito e il Marsala. Impastare il tutto, aggiungendo se necesario ancora un pó di liquore, e tirare l’impasto in una sfoglia sottile. Ritagliare con una rotellina delle strisce di circa 20 cm di lunghezza che andranno sucesivamente fritte in olio ben caldo per 2-3 minuti. Le chiacchiere andranno poi scolate, lasciate asciugare e spolverizzate con lo zucchero a velo.

giovedì, febbraio 15

Nero d'Avola Bio Valdibella: la bontà del cuore!



"Il vino ravviva il cuore", è scritto in un celebre romanzo spagnolo. Non soltanto il cuore.
(Max Aub, Delitti esemplari. Sellerio editore Palermo, 1981)

Dal biologico al biodinamico, andata e ritorno. E' la volta di un vino bio della Cooperativa Agricola Valdibella: il Nero d'Avola 2005 IGT Sicilia.
Siamo a Camporeale, in provincia di Palermo.
Sei produttori che coltivano le loro vigne secondo il metodo biologico.
Un progetto estremamente interessante che coniuga una forte volontà di valorizzazione territoriale, una spiccata attenzione al sociale e una scelta economica solidale e sostenibile. Da queste parti sembra esserci un profondo rispetto per la natura, di conseguenza la materia prima è di altissima qualità, ma non divaghiamo e torniamo al vino.

Un nero d'avola vinificato in purezza proveniente dalla zona occidentale dell'isola, quindi fine e molto fruttato (a conferma di una vecchia regola!). Affinamento in acciaio, niente legno, successivamente sei mesi di riposo in bottiglia dopo di che è già pronto per la vendita. Noi l'abbiam comprato dal buon Vincenzo de L'Orto Biologico a Salerno, ma è possibile ordinare qualcosa via mail anche direttamente all'azienda. Il costo? Lo abbiam pagato per l'esattezza 5,60 euro, un eccellente rapporto qualità/prezzo, ci sembra davvero una buona proposta.
Dopo 15 minuti dall'apertura parte la bella performance di questo vitigno autoctono principe del made in Sicily, caldo e di struttura, giovane, certo, ma per niente artefatto. E' un vino sincero questo nero d'avola con i suoi profumi di frutta sotto spirito, di ciliegia, di more, di ribes, insomma di frutti di bosco con dei leggeri sentori di sottobosco. Al gusto è molto naturale, fruttato, fresco. Molto vinoso e bevereccio.
E' il vino della festa, del week end. E' una bottiglia per stare insieme con gli amici.
Lo facciamo aprire semplicemente con dei pomodorini secchi di Pachino ciliegino sott'olio su di un crostone di pane cotto a legna; lo sposiamo ad una grande pasta cu' macco; lo accompagniamo al caciocavallo ragusano tradizionale (con latte di vacca Modicana) semi-stagionato o affumicato; gli diamo la possibilità di sfidare degli straccetti di bufala con rucola e aceto balsamico; possiamo finanche osare e provarlo su di un cous cous con carne di maiale, broccoli e/o verdure miste, come si è soliti fare la domenica nella zona del trapanese. Prova superata (lui). Ci ha dato grandi soddisfazioni, provare per credere (voi).

"Questo vino è la bontà del cuore"
Don Luigi Perelli

www.valdibella.com

martedì, febbraio 13

Biologico e new age


Bio è trend.
E mi riferisco al classico prodotto definito "biologico".
Ma sapete che esiste un altro tipo di coltivazione che sta trovando la sua strada sul mercato alimentare a livello mondiale?
"Un altro?" direte voi.
"Ebbene sì!" vi rispondo.
Sedetevi comodi, accendete un incenso ayurvedico, abbassate le luci e rilassatevi.
Inspirate con la bocca e espirate dal naso...lentamente.
Fatto?
Bene, allora possiamo cominciare.

Signore e signori, è con grande piacere che introduco un nuovo concetto di agricoltura: oggi parliamo di agricoltura biodinamica.
"Ma che diavolo è?" direte sempre voi, lettori attenti e favorevoli a nuove esperienze!
Calma e respirate consapevolmente nel frattempo!
Iniziamo.

L'agricoltura biodinamica è praticata con successo in tutto il mondo, dall'India all'Australia, dall'Africa al Canada e (ebbene si!) anche in Italia.
Ma che differenza c'è tra l'agricoltura biologica e biodinamica?
L'agricoltura biodinamica include tutti i principi dell'agricoltura biologica, ad esempio recupera le pratiche tradizionali, quali il rovescio e la rotazione delle colture (insomma, gli agricoltori "biologici" hanno sempre a portata di mano il calendario di Frate Indovino!).
Nell’agricoltura biologica non si utilizzano pesticidi e concimi di sintesi...e anche nella biodinamica!
E allora cos'ha di così speciale l'agricoltura biodinamica?
La terra viene trattata come un organismo vivente attraverso la somministrazione di preparati omeopatici e tecniche naturali.
No, non sono impazzita!
Esiste veramente chi si occupa della terra come se si occupasse di un parente!
Surreale?
No, no...realtà siòri e siòre!
Quindi la caratteristica dell'agricoltura biodinamica è la cura "medica" del terreno e delle piante.
L'agricoltura biodinamica usa una serie di "preparati" utilizzati in dosi omeopatiche, che funzionano come vere medicine per il terreno e per le piante.
Ne risulta un progressivo risanamento del terreno, con un aumento di humus stabile e una qualità superiore dei prodotti.
Insomma, una filosofia un pò new age sta alla base di tutto.
Per molti decenni l’agricoltura biodinamica non è riuscita ad affermarsi, sovraccarica com’era di compiti “religioso-filosofici” che non competevano alla pratica agricola.
Poi dai primi anni '90, l’avvento del metodo biodinamico moderno ha “slegato” dall’oscurantismo esoterico tale pratica agricola, rendendola accessibile a tutti gli uomini liberi.
Viva Dio e viva la libertà!
Molte persone sostengono, ancora oggi, che l'agricoltura biodinamica usa pratiche assolutamente sconcertanti nell'ottica dell'agricoltura convenzionale.
Ad esempio i trattamenti con il corno-letame o con la silice.
Per qualcuno si tratta di pratiche di stregoneria e del tutto inefficaci in un'ottica puramente "agronomica".
Per chi le adotta con convinzione e consapevolezza sono postulati irrinunciabili ed anche molto efficaci.
Io non butterei la discussione sull'ideologia (altrimenti non ne usciamo più) ma mi atterrei ai fatti.
Uno di questi fatti è che esiste una Associazione per l'Agricoltura Biodinamica rudolfsteiner.it/biodinamica/index.html che organizza corsi, fornisce consulenze e lavora per la promozione del metodo biodinamico.
Buona parte delle aziende che producono secondo questo metodo vendono i loro prodotti con il marchio collettivo e internazionale DEMETER, secondo il relativo disciplinare di produzione.
Come per l'agricoltura biologica certificata, esiste un sistema di controllo con ispezioni annuali relative all'effettiva applicazione del disciplinare.
State tranquilli quindi.
I prodotti biodinamici sono molto controllati e quindi sicuri....ve lo dice una che si occupa proprio del controllo nella filiera alimentare.
Il problema sarà "solo" quello di reperirli sul mercato!

Bene, la prima seduta terapeutica è terminata.
Potete tornare alle vostre occupazioni giornaliere con maggiore serenità d'animo.
Alla prossima.

EvE

domenica, febbraio 11

Il Maiale Ubriaco presenta: Elenoire

Taa daaaa!!! Rulli di tamburi e squilli di trombe. Udite udite, venghino siori venghino. Il Maiale Ubriaco è lieto di presentarvi il primo collaboratore ufficiale. La nostra Elenoire, tecnologa alimentare, che da oggi darà il proprio contributo per comprendere meglio il rapporto alimentazione-nutrizione. Non fatela arrabbiare!

Italiani fedeli all'istituzione del Maiale Ubriaco sono lieta di comunicarvi che da oggi non vi libererete tanto facilmente di me. Quei brav'uomini dello staff mi hanno ingaggiato e io non li deluderò! Per prima cosa leggete attentamente il foglietto illustrativo sottostante! Sapete come si dice no? "Uomo avvisato, mezzo salvato!" La mia rubrica sarà un prodotto ad alta concentrazione di sarcasmo alimentare. Ripeto: leggete attentamente le avvertenze e le modalità d'uso. La rubrica sarà un prodotto versus-elenoire che nella vita di tutti i giorni trovate QUI: www.elenoireversuselenoire.spaces.live.com Tenere fuori dalla portata dei bambini!

PRINCIPIO ATTIVO
alta concentrazione di informazioni alimentari fornite da versus-elenoire...che, giusto perchè lo sappiate, non è una pinco-pallino qualsiasi ma è un tecnologo alimentare...sono una donna ma nel campo professionale preferisco definirmi tecnologo con la o finale!!!
ECCIPIENTI
curiosità, notizie, chiarimenti
MODALITA' DI ASSUNZIONE
Assumere una dose di rubrica tutti i giorni, cominciando un giorno prima di giungere nella zona blog "Maiale Ubriaco", continuando l'assunzione durante tutta la durata del soggiorno nel blog e continuando per 1 settimana dopo l'uscita dalla zona blog interessata.Non assumere dopo i pasti...soprattutto se vi sentite confusi da ciò che avete ingerito!!!
CONTROINDICAZIONI
Possono manifestarsi degli stati di insonnia. Non preoccupatevi sono reversibili.Alla lunga si possono manifestare delle dipendenze. Se quest'ultimo sintomo persiste non consultate il vostro medico curante, vuol dire che siete in piena salute!
ATTENZIONE!
La mancanza di umorismo e intelligenza nell'apprezzare il sarcasmo di alcuni interventi potrebbe offendere i soggetti allergici a contenuti erroneamente giudicabili maschilisti, femministi, macabri, razzisti o immorali Se i sintomi persistono, evitate di venirmi a trovare.

Precisazione doverosa: l'utilizzo del sarcarmo non rende false le informazioni che vi fornirò..che sia chiaro! Sono una professionista io...mica bau bau micio micio. Ebbene, spero di essere stata chiara.

Vi aspetto a fiotti!!!!
EvE

giovedì, febbraio 8

tagliatelle allardiate

Abbiamo deciso di rimanere ancora per qualche giorno sul territorio Irpino-Sannita alla ricerca di un’altra ricetta, ancora una, in cui vi fosse il pecorino laticauda fra gli ingredienti principali. L’abbiamo trovata ad Avellino, capoluogo iripino, in una caratteristica taverna del centro storico, l’ Antica Trattoria Martella, riportata anche nel libro Ricette di Osterie d’Italia - Slow Food Editore. Un piatto molto semplice e gustoso che rispecchia a pieno le abitudini culinarie di questo territorio, dove la cucina é sempre stata sinonimo di abbondanza, soprattutto nei condimenti. Sembra infatti che le tagliatelle allardiate vengano cosi chiamate perché mantengono il riferimento al lardo, ingrediente abbondantemente utilizzato nella cucina della tradizione locale. Noi, come sempre seguaci di una cucina schietta e in virtú delle usanze locali, il lardo lo abbiamo utilizzato con divertimento e grande soddisfazione per il palato. Aggiungerei che questo piatto é particolarmente adatto per una rigida giornata d’inverno, seduti a cena davanti al caminetto, in compagnia, degustando del buon vino rosso… quello della casa! Per chi non potesse, pazienza, speriamo solo che il risultato sia di vostro gradimento.

500 gr. tagliatelle
150 gr guanciale
200 gr pecorino di laticauda grattugiato
1 cipolla
2-3 cucchiai di lardo (5-6 cucchiai olio extra vergine d’oliva)
2 cucchiai di latte
2 foglie di alloro
sale
pepe bianco

Affettare la cipolla e la pancetta. Far soffriggere la cipolla nel lardo fino a quando non sará appassita, aggiungere la pancetta, l’alloro e cuocere a fuoco moderato per 4 - 5 minuti. Cuocere ben al dente la pasta che andrá scolata e amalgamata in padella per qualche minuto con il resto del soffritto, il pecorino, latte e abbondante pepe. Servire ben caldo.

lunedì, febbraio 5

pecorino di laticauda sott'olio

E’ trascorso un pó di tempo oramai dall’ultima ricetta del maiale ubriaco e abbiamo pensato che non potessero mancare un paio di suggerimenti sull’utilizzo di quest ottimo formaggio di pecora.
Iniziamo con una soluzione semplice, applicabile non soltanto al laticauda ma a diversi tipi di formaggio stagionato. Il pecorino sott’olio, oltre ad essere una forma alternativa e particolare di conservazione, riprende un'antica tradizione contadina nata dalla necessità di conservare per l'inverno il formaggio fatto nella buona stagione. Il risultato é un formaggio gustosissimo, leggermente piccante, dall’ aroma intenso, lievemente ammorbidito dalla presenza dell’olio d’oliva. Serve a poco descrivere la mia sorpresa nell’aprire quel barattolo gelosamente custodito in dispensa per giorni e assaggiarne il contenuto. Fragranza, consistenza, retrogusto, hanno reso il momento dell’assaggio particolarmente intenso, complice senza dubbio un mite e soleggiato pomeriggio d’inverno. Il modo migliore per accompagnare questa squisitezza é altrettanto semplice, un crostone di pane caldo appena sfornato e perché no..un buon bicchiere di vino rosso.

500 gr di pecorino
alloro
aglio
timo
pepe nero in grani
peperoncino fresco
olio extravergine d'oliva
Mettere in vasi di vetro puliti ed asciutti il pecorino tagliato a pezzi di circa 3-4 cm. Aggiungere i grani di pepe nero, l'alloro, l'aglio tritato, il timo, il peperoncino tritato e coprire con l’olio extra vergine. Conservare in un luogo asciutto e al riparo dalla luce e consumare preferibilmente entro un mese.

giovedì, febbraio 1

pecorino di laticauda

Il maiale ubriaco oggi esplora le affascinanti terre dell’Irpinia e del Sannio, territori in cui l’allevamento ha radici antichissime e dove l’abbondanza di pascoli offre foraggi ed erbe uniche, in grado di conferire ai prodotti caseari locali caratteri molto particolari.
Famoso nella zona dell’alta Irpinia è il formaggio Carmasciano che prende il nome dall’omonima contrada, luogo ameno, antico e suggestivo situato a quasi 1000 metri d’altezza. Ma ancora piu’ prelibato e’ il pecorino di laticauda, formaggio antichissimo risalente al XIV secolo, la cui richiesta di riconoscimento della Denominazione di Origine Protetta è attualmente al vaglio del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
Dal gusto sapido, tendente al piccante, la pasta dura, il colore giallo paglierino e l’odore intenso, il formaggio viene ricavato dal latte di pecora della razza autoctona Laticauda a coda larga, nata nelle terre del Sannio attraverso incroci casuali tra la popolazione locale della pecora Appenninica e quella della pecora Berbera di origine Nord-Africana, importata in Italia durante il regno Borbonico.
Il formaggio nella sua fase di lavorazione viene messo in salamoia e lasciato stagionare dai 2 ai 4 mesi. Durante questo periodo, raggiunto un buon punto di maturazione, inzia una fase di sudorazione, ossia il formaggio emette qualche goccia di liquido e viene unto per diversi giorni con dell’ olio extra vergine di oliva al fine di migliorarne le caratteristiche di conservazione. Il laticauda viene poi commercializzato, soprattutto sui piccoli mercati locali, con pezzature che vanno dai 300 g per il formaggio fresco, fino a circa 5.5 kg per il formaggio stagionato.
Come gia’ accennato la zona di produzione del pecorino e’ quella del Sannio, luogo carico di mistero e tradizione. Proprio nel mese di febbraio a Pontelandolfo, in occasione del carnevale, si svolge una manifestazione molto particolare che coinvolge gli abitanti e inonda ogni luogo del paese del sapore di antiche credenze, tra il sacro e il profano. Qui il nostro pecorino assume un ruolo del tutto particolare. Nella serata tra il 16 ed il 17 gennaio, infatti, nelle piazze del paese e nelle campagne più remote, in onore di S. Antonio Abate, vengono accesi i falò propiziatori di buon auspicio per un anno ricco di prosperità e di benessere. La brace del sacro fuoco viene portata in casa a proteggere la famiglia da ogni avversità. La cenere, invece, viene cosparsa nei campi in segno di speranza per un buon raccolto. Dal 17 gennaio, tutti i pomeriggi, fino al tramonto del giorno delle Ceneri, Pontelandolfo propone il suggestivo gioco popolare della ruzzola del formaggio.
Gesti rigorosamente rimasti immobili nel tempo riprendono corpo attraverso il lancio di una forma di formaggio, che ruzzola per le vie del borgo fino a terminare la sua corsa al traguardo stabilito, facendo esplodere il grido vittorioso della folla di spettatori. Un gioco che riprende il coraggio, la forza del riscatto del contadino di un tempo, che nella sfida trovava una ragione di vita ai suoi sacrifici, alle sue difficoltà, quando con la sola forza dei muscoli affrontava ad armi pari i ricchi ed arroganti padroni delle terre.
Un modo come un altro, e a noi piace anche leggerlo cosi, per rapportarsi al cibo e renderlo partecipe di ogni momento della nostra vita…magari pure lontano dalla tavola.