venerdì, settembre 28

Porcini e patate al forno...le sorprese della cucina britannica

Questo è un post light!

Una ricetta da fine settimana, quando sei davvero stanco e ti porti addosso tutto il peso di una lunga crociata lavorativa. Torni a casa e prima di metterti comodo entri in cucina per stappare una bottiglia di vino (quello buono) e darti il bentornato. Poi però senti che c’è qualcosa che non va. Gironzoli e sbirci fra gli scaffali, ti muovi in fretta, guardingo, consapevole che qualcosa manca. Ah…ecco, hai dimenticato di far la spesa; bene...e adesso?
Ad un tratto un sorriso attraversa le tue labbra, entra in gioco un'aria compiaciuta e mentre l’ultima goccia di rosso cade nel calice in pugno sai di aver trovato ciò che volevi.
In settimana mi è arrivata una piccola scorta di funghi porcini. Malvolentieri li avevo messi da parte, con la speranza che il momento giusto per gustarmeli sarebbe arrivato. Cosi è stato.
Quindi oggi vi propongo un piatto particolare. Ancora una volta mi lancio sul ponte “anglo-campano” utilizzando una ricetta tipica della tradizione culinaria britannica, la jacket potato, ed un formaggio, lo stilton, che pure sta a cuore ai puristi della tavola locale. Ci ho accostato proprio il fungo porcino, creando un piatto semplice, senza pretese, che a qualcuno farà magari storcere il naso, ma che vi assicuro, vale la pena provare. Buon appetito!

Ingredienti x 2 persone

2 patate (belle grandi)
100 gr. di Stilton (può essere sostituito da un cremoso gorgonzola piccante)
150 gr. di funghi porcini
1 spicchio d’aglio
4 – 5 cucchiai di olio extravergine d’oliva
prezzemolo
sale
pepe

Lavare le patate ed asciugarle per bene con uno strofinaccio. Bucarle con la punta di un coltello affilato o una forchetta ed ungerle, utilizzando le mani, con del buon olio extravergine d’oliva.
A questo punto incidere a croce per ½ della profonditá ed infornare per circa 2 ore a 160°C.
Le patate saranno pronte quando la buccia sará ben croccante e la consistenza morbida.
Condire con il formaggio ed i funghi porcini (questi ultimi precedentemente soffritti in padella con uno spicchio d’aglio e una manciata di prezzemolo); aggiungere una spruzzata di pepe nero e lasciar riposare in forno per ancora qualche minuto.
Servire ben calde, magari accompagnate da una buona insalata di stagione.

Remo Morretta

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martedì, settembre 25

Come ti RoVino il meme!

E pure al Maiale prima o poi doveva toccare un meme.
Noi, vecchi compagni di sbronze, non è che abbiamo molta stima per sto MeMe. Siamo sinceri, lo siamo sempre. Ma di sicuro di stima ne abbiamo per chi ce lo passa ed è questo che vogliamo onorare partecipando. Stima per RoVino, per il rapporto umano in generale, per il fatto che emerga sempre e primariamente. Alla richiesta di far sapere, seppure a scopo ludico, alcune cose che ci riguardano, rispondiamo – senza la volontà alcuna d’esser fraintesi o, peggio ancora, superbi – che molte ma molte di quelle cose stanno tutte in quello che quotidianamente scriviamo. Detto ciò, posto che manco abbiamo ben chiaro come gestire il meme e rischiando di andare fuori traccia (o volendo fare di capa nostra…dipende da come la vedi..) rilanciamo alla maniera del Maiale, evitiamo gli ottopunti per ottoargomenti - 8 saranno solo i prossimi malcapitati – e fissiamo subito subito il tema del prossimo. Il Maiale è guardone, godereccio, indisponente e feticista; compagnone e appassionato. Indi per cui vi chiediamo: scattate una foto – u.n.a. – che ritragga una parte di voi stessi. Un piede, una mano, una caviglia, il mento, una ciocca di capelli, il solco della schiena (ciccioni astenersi!). Insomma, un pezzo della vostra baracca od, anche, una parte della vostra cucina, della vostra stanza da letto, aprite l’armadio, fateci intrufolare ecco. Vogliamo avere la sensazione di essere stati lì ed esserci fatti un pochino i fattacci vostri. Pensate di riuscirci? Bene! Concludiamo allora dandoci un appuntamento…vediamo…..diciamo per lunedì? Ce la fate? Ok! E così non ci resta che elencare i nostri cari 8 malcapitati e passare a loro la palla:

Ste, Re & G - Il Maiale Ubriaco -

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lunedì, settembre 24

Sise delle Monache..dolci d'altri tempi!

Ci ha scritto Marika, le cui origini sono per metà laziali e per metà abruzzesi. Ci ha proposto un dolce della provincia di Chieti a cui sono legati ricordi e suggestioni d'infanzia. Pubblichiamo il pezzo con immenso piacere, perchè sa di terra e di uomini, ed al Maiale questo interessa. Tra gli odori del Parco Nazionale della Maiella e le antiche strade del paese di Guardiagrele recuperiamo un altro momento importante della tradizione regionale italiana.
Oggi vorrei farvi conoscere più da vicino un dolce tipico della mia terra paterna, un dolce che nella composizione e nei ricordi sa d’infanzia: le Sise delle monache. Un comfort food di altri tempi! Delle lunghe passeggiate invernali con il mio papà ricordo questa particolare pasta, quel suo profumo irresistibile che sapeva di buono e che faceva puntualmente capolino dal retrobottega, quando il pasticcere (con le mani che profumavano di vaniglia) si affacciava per chiedermi quale ripieno volessi. Allora non arrivavo neanche al bancone e puntualmente mi sporcavo naso occhi e bocca con lo zucchero a velo, mentre ridevo di gusto al solo pensare al nome del dolce. Della storia delle Sise delle Monache non esiste versione ufficiale, ci sono molti aneddoti che hanno arricchito di dettagli la vita di un semplice pasticcere di Guardiagrele, Giuseppe Palmerio, che nel 1884 andò fino a Napoli per imparare l’arte della Pasticceria. Una volta tornato inventò questo dolce semplice e raffinato al tempo stesso, che in origine chiamò Tre Monti perché nella forma ricordava le tre vette della catena montuosa della Maiella: Morelle, Acquaviva e Focalone. Fu poi un poeta dialettale e natìo anche lui di Guardiagrele, tale Modesto Della Porta, che osservando e assaporando il dolce pensò che nella forma e nel candore (dovuto allo zucchero a velo) ricordava molto il seno delle suore, forse perché usavano nascondere un fazzoletto tra i seni per mascherare le rotondità. Divenuto ormai simbolo della città di Guardiagrele, lo si può gustare soltanto in una o due pasticcerie del paese che, ovviamente, custodiscono gelosamente la loro ricetta. E’ stato nominato da poco, credo, presidio Slow Food. Io ne ho però una versione tramandata, ve la affido volentieri:

Ingredienti
12 uova (albumi e tuorli separati)
300 gr di zucchero
200 gr di farina 00
100 gr di fecola
x guarnire
crema pasticcera
crema chantilly
Setacciare e unire la farina e la fecola. Dividere i tuorli dagli albumi. Montare i tuorli con 100 gr di zucchero finché il composto non diventa bianco e spumoso. A parte montare gli albumi a neve e prima che il composto diventi fermo incorporare 200 grammi di zucchero. Versare quattro cucchiai di chiare montate a neve nel composto di tuorli e mescolare con delicatezza con l’aiuto di una spatola. Con un movimento dal basso verso l’alto incorporare piano piano il resto delle chiare. I primo cucchiai ammorbidiscono l’impasto, il resto “lega”. Unire successivamente farina e fecola setacciate a pioggia. Versare il composto in un sac à poche e depositare su una teglia ricoperta da carta da forno tre mucchietti di composto attaccati, deve risultare una base con tre ciuffi. Lasciare cuocere a 200° circa per 12 minuti. Una volta fredde, tagliarle alla base e farcire o con crema pasticciera o crema chantilly. Spolverare con lo zucchero a velo e servire, magari tiepide che sono più buone.
Marika

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sabato, settembre 22

Pitatza 2004

Scrivere questo pezzo è stato un po' complicato e rocambolesco, ma l'importante è aver fatto in tempo a postare. Esserci riuscito mi regala un bel senso di soddisfazione! Just in time.
Conosco il Pitatza dal suo esordio nel 2003 e ricordo di averlo apprezzato sin dal primo bicchiere che Fortunato mi versò in un piccolo bar di quartiere, mentre il dj alla consolle passava Piero Ciampi. All'epoca in maniera ingorda ed ignorante ne bevvi a fiumi, subito, senza preoccuparmi troppo della sua potenziale capacità di invecchiamento ed evoluzione, così il mio cartone da sei, con sopra i quattro gechi, finì presto. Probabilmente ero anche un po' incredulo e scettico, ma fortunamente tutto ciò mi è valso ad imparare la lezione: mai dubitare dell'aglianico!
Oggi ho finalmente tra le mani la nuova 2004, che imbottigliata a cavallo tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007, senza troppe pippe teoriche e ragionamenti alchemici, un po' quasi per caso, finisce per farsi due anni di legno come se nulla fosse. L'uva proviene sempre da antiche vigne delle colline irpine coltivate da alcuni contadini di fiducia. Questa versione, che conserva ugualmente il timbro predominante della 03, è sicuramente più seria, più complessa, più importante, merito anche dell'annata, ma soprattutto del lungo tempo trascorso in legno.
Bere questo vino è come andare al ristorante, sedersi, ordinare degli spaghetti con i datteri ed essere accontentati! E' un vino pirata, con una tinta tutta violaceablue, ed una tipicità tutta sua. La sorpresa che non ti aspetteresti mai da un vino senza troppe pretese, che non delude e che regge fino in fondo, un bicchiere che finisce e si ricolma, una bottiglia che dopo ne riapriresti subito un'altra e peccato che non ce l'hai.
Di questo Pit'04 non se ne trova traccia in enoteca, al ristorante neanche a parlarne, non è (ancora) distribuito, l'azienda addirittura quasi non esiste e in fondo un po' è come se il vino stesso non ci fosse. La tranquillità però risiede nel fatto che dietro quest'aglianico ci sono tre amici: un designer, un programmatore e un enologo, Igor Oto e Fortunato, trentatrè trentatrè e trentatrè e l'un per cento che resta è di chi lo beve. Tre giovani uomini per un vino che si fa da solo, che segue il suo corso e si fa i fatti suoi: qui Fortunato Sebastiano lavora davvero il meno possibile. Un vino persistente nella sua estrema semplicità, naturale, non filtrato, non stabilizzato; un vino vero di quelli che Mario Soldati sicuramente avrebbe saputo apprezzare.
Appena aperto è proprio pitatza rustico ben distinguibile, senza perdere, neanche per un istante, la sua impronta tipica, il suo timbro caratteristico. Inizia poi ad aprirsi e sale verso la collina, si arrampica. Spazio all'amarena che è netta ed evidente, un po' di liquirizia fa capolino, si avverte un filo di tostatura (a testimonianza dell'uso di un po' di barrique nuove) e i tannini son ben risolti grazie al legno che arrotonda e doma l'effetto recalcitro. Finisce con una nota di pepe, con la feccia, con la tipica e ormai rara posa da vino vitale. Un aglianico che più schietto non si potrebbe, un vino che ha ancora tutto da dire, che forse non merita neanche di essere aperto così brutalmente, con curiosità frettolosa e quasi con violenza. La pazienza di un geco, per un vino contadino nell'indole, fatto per gli amici. Una produzione di 2.000 bottiglie quasi introvabili, mettevi alla ricerca però che ne vale davvero la pena.
Chiudiamo in bellezza con un'ulteriore chicca, una piccola nota tutta musicale: Giuseppe Mercalli un gruppo col nome di un singolo, la vita è prima di tutto divertimento! Non afferrate il nesso di questo suggerimento musicale? Vabbè qui al Maiale Una barca nel centro di Roma oggi è in heavy rotation.
Pitatza: il primo vino che contiene (pochi) solfiti come riportato in etichetta. Un aglianico che trasuda la vita di tutti i giorni.
Questo vino partecipa a il Vino dei Blogger #10 Grandi vini da piccole vigne di Mauro Erro su via Freud 33.

Giacinto Chirichella

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mercoledì, settembre 19

Ancóra Marennà

Di Marennà il Maiale Ubriaco aveva già parlato qui un centinaio di giorni fa con un bel post firmato dal buon Riccardo Vecchio. Avevamo poi rapidamente accennato di un nostro secondo passaggio, nel pezzo tipicamente estivo dedicato alle scorribande di luglio. Come promesso, eccovi il resoconto esclusivo del pranzo. Come anticipato, questo è ciò che resta nella nostra memoria come piacevolissimo ricordo di quel giorno.

Domenica 29.07.2007, ore 13,30
Innanzitutto due parole sull'ambiente, che in contro tendenza rispetto alla voce di popolo, non ho trovato minimamente freddo, probabilmente aiutato dalle luci del giorno. La sala è davvero ben fatta: vetri molto ampi, con una vista suggestiva sul territorio irpino. Niente folk, spazio alla funzionalità, all'eleganza, alla privacy. Le sedute Poltrona Frau (come il menù e la carta dei vini) son comodissime, l'hotellerie è molto curata, i piatti Rosenthal, le posate firmate Vignelli e disegnate in esclusiva per Marennà sono coordinate in un unico set con il cubo portaghiaccio.
Dicevamo quindi spazio all'intimità e alla tranquillità, merito anche (e questa è la vera piacevole sorpresa) di un servizio impeccabile, ma mai forzato, sempre cordiale e mai abbottonato, allo stesso tempo professionale e alla mano, quindi molto naturale. Ma veniamo alla proposta gastronomica. L'occasione era ghiotta ed invitante, dal momento che da pochissimi giorni c'era un nuovo menù tutto pensato dallo chef Paolo Barrale.
Si inizia con il Benvenuto dello chef composto da un inaspettato quanto ben riuscito muss' é puorc' a forma di piccolo cubetto in versione rimodernata; una vellutata di fagioli di Controne (con una spolverata di caffè) servita in una tazzina e una cozza in tempura poggiata sul cucchiano; e infine una spuma di ricotta di bufala con un piccolo pomodoro secco caramellato. Bhè se questo è solo l'inizio le aspettative non possono che aumentare! In contemporanea arrivano anche dei grissini e dei pani appena sfornati. Ordiniamo del Pietracalda 2006 a bicchiere che come aperitivo d'ingresso va più che bene.
Passiamo agli antipasti con un Battuto di Scottona (servito con un uovo, del tartufo, del caciocavallo podolico per un viaggio intorno al filetto) e un Cannolo di pane ripieno di baccalà mantecato, friggitelli e olive in sorbetto. Entrambe le proposte, seppure nella loro diversità interpretativa, sono stuzzicanti e deliziose. Noi osiamo bevendoci su un po' di Campanaro 2005.
Dopo questi ottimi apripista è la volta dei primi: Gnocchi di pane e ricotta con agnello e aria di pecorino e Spaghetti di Gragnano coniglio e pioppini. Direi che gli spaghetti di Gragnano rappresentano un eccellente piatto unico che vince su tutto, ben bilanciato, con un gusto vibrante e in evoluzione, sempre ricco di nuovi sapori inaspettati, mai monocorde! In contemporanea facciamo aprire un Serpico e un Patrimo entrambi 2004. Nell'attesa delle altre pietanze si chiacchiera, si discute e si sfoglia un book con le foto di Luca Vignelli e Alberto Peroli, una traccia del territorio che testimonia il rinascimento enologico del meridione d'italia.
Adesso tocca ai secondi. I piatti sono sempre presentati con molta semplicità e poca autocelebrazione. Avevamo scelto il Maialino da latte in "dolceforte" di San Marzano con scarole all'acciuga e la Spalla d'agnello cotta piano piano (con polpette di melanzane, ricotta di fuscella e salsa alla menta). Il menù è costantemente in crescendo, come dessert abbiamo delle Albicocche alla lavanda, cannolo bretone al cioccolato e moscovado e l'ormai celebre Giffoni e Bronte in dolcezza. Piccola nota di umanità con le albicocche alla lavanda c'era in abbinamento del latte di mandorla che i ragazzi dimenticano di servire. Pazienza beviamo un bel bicchiere di Privilegio 2004; il piatto non verrà conteggiato nel conto.
In definitiva oserei dire che da Marennà bisogna andarci, perchè è inutile descriverlo, è inutile parlarne, è inutile discuterne. Inutile ma bello! E' un luogo dove i soldi si spendono con estremo piacere e gioia, dal momento che tutto (e dico tutto) è proporzionale alla qualità dell'offerta.
Marennà come fare la marenna, come andare a merendare, come raccontare. Che soddisfazione e che piacere farsi coccolare a Marennà.

Riepilogo conto: (€ 153 x 2 persone)
2 menù: € 86
3 calici Pietracalda: € 12
2 calici Campanaro: € 9
2 calici Serpico: € 14
2 calici Patrimo: € 20
2 calici Privilegio: € 12

Marennà
Feudi di San Gregorio
Località Cerza Grossa
83050 Sorbo Serpico (AV) Italy
tel 0825 986621
Aperto dal mer. al sab. pranzo/cena,
dom. pranzo.
www.feudi.it

Giacinto Chirichella

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lunedì, settembre 17

Croccante di nocciole dei monti picentini

È tempo di nocciole! Io me ne ero quasi dimenticato. La lontananza purtroppo mi tiene distante pure da quelle piccole forme di umanità e tradizione che giorno dopo giorno si ripetono in una terra come la nostra. L’autunno inizia a far capolino e sui Monti Picentini, in provincia di Salerno, gli abitanti del luogo si preparano ad accogliere fra mito e rito uno dei frutti più preziosi di questa stagione. La nocciola…appunto.
L’uomo e la nocciola hanno da queste parti un legame indissolubile, una relazione intima, particolare. Convivono e si influenzano a vicenda; le loro vite, le loro storie, si intrecciano e si confondono. Per secoli queste terre sono state contraddistinte dal lavoro duro, da proprietà povere e piccoli appezzamenti di terreno a conduzione familiare in cui ambiente domestico e lavorativo venivano a fondersi e la coltivazione dei campi, con i tempi e i ritmi incessanti che la contraddistinguono, finiva per essere anche una spinta a socializzare, un modo per ritrovarsi. Oggi, nonostante un po’ di cose siano cambiate, qui si continua a trovare rifugio nella terra, quasi a voler confermare in essa un modo di vivere d’altri tempi, nostalgico, splendido.
Forse profondo il mio approccio per un Lunedì mattina, ma inaspettatamente la nocciola, i suoi colori e il suo sapore, mi hanno portato a riflettere. Cresce in me la sensazione che il mondo giri troppo in fretta e sia sempre più complicato assecondarne i tempi. Rallentare e riappropriarsi del “nostro” tempo, partendo da gesti anche piccoli del quotidiano, mi sembra un’idea. Io riesco a farlo in cucina, fra le mie cose ed i miei pensieri. Un caro saluto. Alla prossima.


Ingredienti

150 gr di nocciole sgusciate e tostate
130 gr di zucchero
1 cucchiaio di olio d’oliva

Versare lo zucchero in una casseruola, bagnarlo con un cucchiaio d’acqua e lasciarlo sciogliere a fiamma bassa. Aggiungere poi le nocciole e l’olio d’oliva, mescolando bene e lasciando cuocere per qualche minuto fino ad ottenere un coloro piuttosto scuro. Versare il composto ancora caldo su un ripiano di marmo odella carta da forno, lasciandogli assumere una forma piatta e rettangolare. Far raffreddare ed infine dividere con un coltello in piccole porzioni.
Il croccante potrà essere conservato in barattoli di vetro o carta argentata anche per alcuni mesi. Nel caso in cui vogliate provarne una variante, tritatelo al mixer (oppure picchiatelo forte con un matterello!!) ed accompagnatelo ad un semifreddo. Nel caso in cui abbiate bisogno di ulteriore ispirazione guardatevi pure la ricetta preparata da Stefano un po’ di tempo fa.

Remo Morretta

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giovedì, settembre 13

Anacaprese: questa illustre s-conosciuta...

Della famosa torta Caprese avevamo già parlato qui, quando il Maiale era ancora ai primissimi esordi. Remo scrisse una buona ricucitura di fondo, raccontando, oltre il dolce, i perché e i percome della sua esistenza e dei suoi natali. Ma non molti, anzi pochi, sono a conoscenza di quella che impropriamente chiameremo “una variante”, ma che in effetti è piuttosto l’altra faccia della medaglia. I giornali hanno raccontato che di recente Montezemolo, nella sua dependance proprio in quel di Capri ed in occasione del suo compleanno, ha fatto mangiare a pochi invitati (un’ottantina ad essere precisi!) un semplicissimo menù a base di pesce che è andato concludendosi proprio con la nostra Anacaprese. Verrebbe da chiedersi, Montezemolo a parte, se gli abitanti di Anacapri non abbiano voluto rilanciare, al tempo che fu, con una preparazione propria, seppur sempre tutta isolana, cercando di conquistare punteggio nei confronti di un primato tutto “caprese”. La prima grande differenza tra le due preparazioni sta nel cioccolato. L’Anacaprese lo prevede rigorosamente bianco. E quando c’è il cioccolato bianco non posso fare a meno di pensare agli agrumi. E’ per questo che utilizzeremo una piccola dose di limoncello. Ancora, direte voi. Già, dico io. La verità è che scopro sempre di più quanto stia bene e faccia la differenza una nota di liquore ai limoni nelle preparazioni. Permettetemi di glissare velocemente su di un appunto mai dimenticato, e cioè la possibilità di preparare un gateau di patate al limoncello. Cosa che faremo, a ben guardare, con la prossima estate. Tieni a mente! Dunque dicevamo: cioccolato bianco & uova fresche, mandorle e limoncello. Questi gli ingredienti principali. Non spaventatevi se la vostra Anacaprese prenderà corpo, una volta in forno, e poi si affloscerà diligentemente. E’ del tutto normale. Verrà bassa e saporita. Provate pure ad utilizzare uno stampo quadrato o rettangolare dai bordi non troppo alti. Sarà soffice e profumata, s’adatterà bene al clima settembrino e potrete facilmente abbinarla ad un pranzo a base di pesce, ad una grigliata di frutta di stagione o provarla, al mattino, come pasto centrale della colazione. Divertitevi a presentarla in tavola in mini-porzioni quadrate, una manciata di fichi (ancora ne troviamo), una buona confettura di limone e qualche mandorla da sgranocchiare per dare consistenza e croccantezza al palato. Concludo, invitando tutti quanti volessero contribuire, a comunicarci notizie ulteriori sulle origini di questo dolce. Non esitate quindi a scriverci, fateci sapere come è andata la vostra Anacaprese e, come sempre, buon appetito.

Anacapri, ottobre 2006 . Vista sul golfo di Capri/Villa San Michele - Sfinge Egizia Stefano Tripodi©

Ingredienti x 1 ruoto medio

300 g di mandorle tritate
200g di zucchero
180/200 g di burro
200 g di cioccolato bianco
1 bicchierino di limoncello
1-2 cucchiai di fecola di patate
6 uova
1 bustina di vanillina
½ bustina di lievito

Lavorare bene burro e zucchero, aggiungere i rossi d’uovo, le mandorle tritate, il cioccolato bianco e il limoncello, poi la fecola e la vanillina. Lasciar riposare per qualche minuto, quindi aggiungere, lavorando rapidamente, le chiare montate a neve ed il lievito. Imburrare ed infarinare uno stampo da pastiera napoletana, aggiungervi il composto e cuocere in forno già caldo a circa 175°.

Stefano Tripodi & Daniela Caselli

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martedì, settembre 11

Pensieri sparsi in una sera d’estate

Il vino assomiglia alla vita. Si lo so, già scritto e probabilmente l’ho anche citato. E sa di già sentito tra l’altro. Capita infatti di leggere o ascoltare qualcuno che afferma che una determinata cosa – la pittura, l’arte, che so, le piante rampicanti – assomiglia alla vita. Ma cosa c’è di più ineffabile, effimero e misterioso?
Il vino nasce e muore. Di un vino ci s’innamora, altri li si detesta e taluni ci appaiono banali. Ecco, appunto. La verità, talvolta è talmente palese, sotto gli occhi di tutti – nonostante molti si affannino a dimostrare il contrario – che affermandola la si rende banale. Quindi, scrivere di vino, significa scrivere di vita. E non c’è cosa più difficile per chi voglia cimentarsi con carta e penna. Talvolta capita che vada a rileggermi cose che ho scritto in passato per ricordarmi di un vino, o ribevendo quello stesso vino capire se sono stato capace di raccontarlo nel modo migliore. Ogni volta penso che il tempo che dedico a quest’opera potrei più saggiamente destinarlo ad altro: parole crociate o lista delle cose da fare, visto che qualcosa da fare che mi sfugge per dimenticanza c’è sempre. Scrivere di un vino che si è bevuto oggi, in una particolare situazione e con determinate persone, non ha granché senso in fin dei conti. Perché domani quel vino sarà altro, noi saremo altro, la situazione sarà completamente diversa e le persone con cui lo berremo pure.
C’è una frase di Jules Chauvet, artigiano vignaiolo francese ormai scomparso, che mi è sempre piaciuta: “Più studio il vino, più vedo che è complicato e più mi rendo conto che sono lontano dal capirlo”. Più vado avanti e più mi rendo conto che il modo migliore di comunicare il vino è berlo e condividerlo. Allo stesso modo però, so purtroppo che non avrò mai la possibilità di bere un buon bicchier di vino con la gran parte delle persone che leggono ciò che scrivo. Di conseguenza, il massimo che possa fare è essere sincero, cercando di scrivere meno fesserie possibili. Ultimamente quello che più mi diverte è bere con persone che con il vino non hanno nulla a che fare: non lo vendono, non ne scrivono, non lo degustano. Comuni mortali che nella vita si svegliano, lavorano, amano, e accompagnano ai loro pasti una sana bevuta moderata. Persone che sinceramente dicono ciò che pensano senza aver nessuna idea di guide e quant’altro, senza alcun preconcetto, senza dover dimostrare di esser fini degustatori e competenti sommelier. O altrimenti quando mi capita di bere con persone che ne capiscono (che orrenda parola, vedi Chauvet), divertirsi a spararle così come viene avendo innanzi un sacchetto nero che copre la bottiglia, senza alcuna aspettativa. Le aspettative sono uno dei maggiori problemi di un uomo. Ti privano del piacere della scoperta inaspettata, della sorpresa e della conseguente innocente meraviglia. Ed allo stesso tempo sono l’anticamera di possibili delusioni.
Una di queste sere, grazie ad un amico, sono riuscito a mettere tutte queste cose insieme. Persone competenti, sacchetti neri, amici ignari e tante bottiglie. Tra i tanti vini, tutti squisiti a modo loro, quello che più mi ha colpito è stato il Fiano di Avellino Pietramara 2003, dell’azienda vitivinicola I Favati.


Si è presentato abbigliato di una veste dorata brillante e limpida. Corteggiava il mio naso con una serie di profumi abbastanza ampi, complessi e ben delineati, che spaziavano dalla frutta bianca e gialla matura a profumi mediterranei d’erbe a note affumicate ben evidenti. Fatto un sorso son capitolato innamorandomene, ritrovando una piena corrispondenza alle premesse, alle grazie che accattivante il vino mi aveva mostrato, accompagnate da un verve minerale ed una freschezza che rendeva il sorso lungo, pulendo il palato che bramava altri incontri d’amore. A chi mi chiedeva di indovinare produttore e annata, ho subito detto Villa Diamante (e chi conosce l’amore che ho per quei vini può capire) a cavallo tra 2003 e 2004. Già, perché che fosse un 2003 lo si poteva intuire dall’opulenza della materia prima, ma la freschezza, l’acidità, e la verve minerale che rendevano il vino leggiadro e equilibrato stupivano. Forse il Fiano di Avellino, di quel torrido 2003, più buono che abbia bevuto.
Milan Kundera in un suo libro ha scritto: “Non si può mai sapere cosa si deve volere perchè si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future. […] L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato”.
Il vino, scrivevo, assomiglia alla vita. Scrivere di vino è fare una fotografia. Si fissa un attimo nei propri ricordi, e se si ha talento e fortuna, per sempre. Tutto qui, niente di meno, ma soprattutto, niente di più.

I Favati, Sede: Piazza Di Donato 41 - Cesinali (AV)
Tel. 0825.666122 e 0825.666898
info@cantineifavati.it www.cantineifavati.it
Enologo: Vincenzo Mercurio; Ettari: 6 di proprietà.
Bottiglie prodotte: 50.000; Vitigni: fiano, aglianico.

Mauro Erro - Taccuino di un giovane bevitore

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lunedì, settembre 10

Cipolle rosse del cilento imbottite al formaggio caprino

Domenica. Era tanto che al mio risveglio non scoprivo una così bella giornata di sole, inaspettata a dire la verità, soprattutto qui dove mi trovo io. Sono contento e come tutti i fine settimana decido di recarmi in uno dei posti più incantevoli che mi sia mai trovato a frequentare negli ultimi mesi. Si tratta di una piccola bottega contadina, poco distante da casa mia e nel cuore di una tenuta nobiliare, quella che una volta fu del capitano Wellington. Qui ci trovi selvaggina, formaggi locali, verdure freschissime e, dettaglio da non trascurare, una piccola caffetteria dove fra un bicchiere di latte ed un pezzo di pane appena sfornato ti puoi godere una lauta colazione.
È proprio qui, seduto al tavolo con la dolce Paula a guardare il tipico abitante del luogo far la spesa che mi è venuta un’idea. Perché non accostare i prodotti tipici che mi trovo fra le mani sempre più spesso con quelli della mia tradizione? Insomma, senza troppe pretese e sempre con uno sguardo al passato, mi piacerebbe esplorare un po’ quello che madre terra ha da offrire pure qui, nella tenuta di Wellington…e non solo!
A casa avevo ancora delle saporite cipolle rosse del cilento, così ho pensato di accostarle ad un formaggio caprino, magari morbido, delicato, dal retrogusto di agrumi. Strano, perchè ce lo avevo praticamente sotto al naso, lo guardavo ed il simpatico commerciante me lo aveva indicato più volte come uno dei gioielli dell’azienda agricola Pylle nel Somerset, il White Nancy. Insieme questi ingredienti sarebbero stati l’ideale per il mio piatto. Del Wellington Farm Shop ve ne parlerò molto presto, mentre della ricetta credo sia opportuno parlarne ora. Quindi eccola, la lascio in buone mani. Buon appetito!


Ingredienti x 4 persone

4 cipolle rosse grandi
150 gr. di formaggio caprino fresco
3-4 cucchiai di olio extravergine di oliva
50 gr. di guanciale
sale
pepe

Sbucciare le cipolle, tagliarle a metà e tirarne delicatamente fuori il cuore, lasciandone intatti soltanto 2 o 3 strati esterni. Tritare la cipolla ricavata da questa piccola operazione e soffriggerla in una padella per qualche minuto con l’olio ed il guanciale tagliato a cubetti. Salare e pepare. Terminata la cottura unire il formaggio e mescolare con cura, aggiungendo se preferite ancora una spruzzata di pepe nero.
Nel frattempo far cuocere le cipolle (quelle cave) in acqua bollente per circa 10 minuti. Scolarle, lasciarle asciugare per qualche istante e finalmente riempirle con l’impasto di formaggio.
Spennellare con dell’olio d’oliva ed infornare per circa 20 minuti.
Servire tiepide. Un antipasto eccezionale.

Remo Morretta

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giovedì, settembre 6

Muffins agli agrumi: il buongiorno si vede dal mattino!

Settembre. Più tempo per stare in casa, i bambini che vanno a scuola, gite fuori porta nei week end, scappatelle al mare o in montagna nelle case riservate alle festività. Personalmente amo starmene in casa di questi tempi, svegliarmi presto e godere di una lunga, lenta colazione. Ma soprattutto ricca! E di colazione oggi parleremo, aprendo un nuovo capitolo fatto di mille cose buone e mille suggerimenti ghiotti. Quello che più ci piace, per cominciare, è apparecchiar la tavola. Imbandirla di tazze, tazzine, cucchiaini, brocche di latte (è vietato il tetrapak), barattoli di marmellata, biscotti caldi, pane fresco, burro, una teiera bollente e dell’ottimo caffè. Tutto accomodato su di una bella tovaglia di lino, come abbiamo fatto nella nostra casa di campagna, di primo mattino, col tenero sole che filtrava dalle finestre appena aperte. Bevuto il primo caffè, quello degli occhi ancora chiusi, ci siamo abbandonati in poltrona, mentre qualcuno nella stanza accanto suonava dolcemente il pianoforte e qualcun altro ci informava che dovevamo aspettare ancora un po’ prima di poter prender posto e cominciare.

E in effetti ci è voluto poco a capire il perché. La casa era colma d’un profumo agrumato e specialissimo, che attraversava le stanze invisibile, arrivando fin nell’ultima, la camera padronale. Dopo una buona mezz’ora abbiamo scoperto la meraviglia: muffins agli agrumi. Che delizia, che squisitezza, che bontà. Ovviamente tutti a tavola di corsa, mentre il sole, alto sopra le colline, dedicava tepore sembrando un grosso tuorlo d’uovo. Le prime massaie per i vicoli già passavano con le ceste dei formaggi, il primo buongiorno risuonava dalla finestra aperta. I trattori, i carri coi contadini e le loro donne già erano partiti, almeno un paio d’ore prima. Tra un po’ si sarebbero svegliati anche i bambini, con gli occhioni gonfi di sonno e la certezza inconsapevole di cominciare davvero bene la giornata. E questo ci pare importante. Iniziare il giorno con una buona colazione, dimenticando per un attimo il cornetto e il cappuccino del bar, la frenesia dei passanti ed una radiolina accesa gracchiante brutta musica. Importante è concedersi. Come tornare indietro nel tempo, riconciliandosi con gli spazi, gli odori, i profumi. Il gusto, centralissimo, ci aiuterà ad iniziare. Corroborerà la mente e il corpo. Metterà d’accordo gli umori. Una buona colazione a tutti. E a tutti un buongiorno.

Ingredienti x 12 muffins

300 g di farina autolievitante
80 g di zucchero
2 uova
120 g di burro
200 g di yogurt bianco (greco o non dolce)
la scorza grattugiata di un limone
la scorza grattugiata di un'arancia
1 dl di panna fresca
zucchero a velo

Mescolare lo yogurt con la panna in una terrina. Montare il burro ammorbidito con lo zucchero e incorporarvi, uno alla volta, le uova. Aggiungere gradualmente la farina, le scorze grattugiate degli agrumi e il mix di yogurt e panna. Lavorare finchè il composto avrà raggiunto una consistenza liscia ed omogenea. Rivestire 12 stampini da muffins con altrettanti di carta (in alternativa usare stampini di alluminio usa e getta), spennellarli con del burro fuso e spolverarli di farina. Riempire gli stampini fino alla metà e infornare in forno già caldo a 180°. Una volta terminata la cottura e raffreddati, cospargere di zucchero a velo.

2 consigli: provate a sostituire al limone grattugiato mezzo bicchierino di limoncello. Accompagnate i vostri muffins con una buona marmellata di arance o di limoni.

Stefano Tripodi & Daniela Caselli

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martedì, settembre 4

Scampoli d'estate e brandelli di fine stagione!

Inizio a buttar giù queste righe non prima di aver stappato l'ennesima bottiglia di negramaro a farmi compagnia!
Il racconto dei nostri giri in lungo e in largo era iniziato qui a fine luglio. La storia però continua adesso, con un viaggio che dura più di tremila chilometri ed è lungo due settimane, tre giorni e qualche ora. Un tragitto Campania, Calabria, Puglia e ancora Calabria che conta per ben quattro volte il passaggio in terra lucana.
Ci spostiamo mentre le fiamme invadono l'Italia e sotto i nostri occhi questa volta lo stivale brucia per davvero. Non si tratta di un effetto mediatico e non c'è un filo di esagerazione in ciò che si sente in giro, anzi, la tristezza per ciò che accade va ben oltre le previsioni, del resto non c'è pezzo di A3 in cui i tristi segni non siano ben visibili e in almeno quattro circostanze incontriamo anche le fiamme.
Ma andiamo oltre, perchè il nostro agosto passato tra le Murge, il Salento e Vibo Valentia è fatto di incontri e bevute, di assaggi e scoperte, di chiacchiere e sole. Un salto ad Altamura e al panificio Di Gesù, dove spezziamo la fame di un tardo pomeriggio con un po' di pane e un biscotto donatoci dal proprietario, prima di far tappa alla pasticceria Fieschi dove facciamo la conoscenza di Francesco (chef, appassionato di vino e ragazzo davvero in gamba!); la zona di Castel del Monte con la visita a Cefalicchio, la piacevole chiacchierata con Nicola Rossi e la bella scoperta del Nero di Troia; la giornata trascorsa ad Alberobello, le camminate tra i trulli e un deludente pranzo con le mosche; l'incontro a Taranto a casa di Gianfranco Fino con il suo straordinario Es 2006 da poco imbottigliato; il folklore baroccheggiante della bella, piccola e antica Martina Franca; le viuzze del centro di Manduria, la Locanda Ti Lu Tuguriu e ancora Gaetano Morella, Luca Attanasio, Alessandro Carrozzo.
Ovviamente primitivo e negramaro come se piovesse...
Di questo viaggio salentino ricorderemo la vite, presente ovunque, quale simbolo della storia contadina di queste terre pugliesi, ma ancor di più le vecchie vigne ad alberello (trentenni, cinquantenni e ottantenni), traccia inequivocabile di una storia antica che grazie all'intuizione di uomini coraggiosi come Cosimo Taurino, si racconta nel resto del mondo e pian piano inizia a dare i suoi frutti.
Le piante di ulivo secolari e il preziosissimo olio dai toni cromatici spiccatamente verdolini; i muretti bassi che fiancheggiano le strade, presenti praticamente ovunque, segno di profonda e garbata civiltà; i buoni rosati bevuti qua e là; le tante visite alle cantine sociali.
E' stata l'estate dell'afa implacabile e dello scirocco notturno, dell'uva mangiata in spiaggia e della ricerca disperata di un oste con del cirò rosso sfuso, delle bevute a fiumi di latte di mandorla e dei pranzi conviviali e luculliani come quello a Lu Cannizzu, sul mare di Porto Cesareo.
Di queste e di altre storie andremo a narrarvi nei prossimi giorni e mentre Mauro lancia il prossimo Vino dei Blogger con i Grandi Vini da Piccole Vigne riprendono le nostre cene serali bevendo i vini semplici, umili, fedeli e no global di Carrozzo, vini che parlano dialetto salentino stretto.
State bene.

Giacinto Chirichella

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