giovedì, aprile 27

ristorante pizzeria "da giggino il pirata"

Nell’immediato dopo-Pasqua i nostri de “Il Maiale Ubriaco” si sono finalmente incontrati per vivere insieme una tre giorni all’insegna del relax e della buona tavola. Il “meeting” è avvenuto nella splendida cornice del Parco Nazionale del Cilento, a Scario, un piccolo borgo di mare alle pendici del Monte Bulgheria e bagnato dalle acque del Golfo di Policastro. La nostra attenzione si è subito rivolta ad uno dei più antichi ristoranti di mare del paese. Il Ristorante “Da Giggino Il Pirata”, omonimo del proprietario che con questo nome ha voluto rendere omaggio a suo padre, pescatore ormai scomparso, e nascosto, quasi, in uno dei ripidi e suggestivi vicoli che portano giù al paese. Prima di mangiarvi, abbiamo incontrato personalmente “Il Pirata” al quale ci è bastato dire di apparecchiare per le 13.00. Dopo una passeggiata in montagna siamo ritornati al ristorante, accarezzati dal sole e dalla brezza di mare. La prima sensazione, dopo essere entrati, è stata quella di poter godere di un privilegio. Eravamo, infatti, gli unici clienti del mattino (il ristorante riposava dopo il pienone di Pasqua e Pasquetta). Ci è stato apparecchiato un tavolo sulla terrazza più alta del locale, in pieno sole di fronte al mare. Il padrone di casa ci è venuto incontro, salutandoci con affetto e rammentandoci subito quello che, di fresco, potevamo mangiare. Prima di arrivare al “gusto”, vorrei spendere due parole su questo ristorante e sul suo istrionico proprietario. Come ho scritto sul mio taccuino “quello che contraddistingue Il Pirata è lo spirito totalizzante”..del luogo e dell’uomo. Il posto è incantevole: due terrazze (una per la pizzeria, l’altra per il ristorante) si affacciano tra i caseggiati da un lato, sul mare dall’altro. In un gioco di luce-ombra, vedo-nonvedo, di indubbia suggestione. Totalizzante è lo spirito dell’uomo che da ormai 40 anni gestisce il suo piccolo angolo di paradiso. Il Pirata, col volto scurito dal sole, comincia presto la sua giornata. Va per mercati, alla ricerca del pesce migliore, sceglie le erbe e verdure di stagione da accoppiare ai suoi piatti, qualche volta cucina. Non sono poche, infatti, le pietanze che nascono all’impronta, suggerite dall’estro del momento e dalla materia prima disponibile. La qualità è nel suo sguardo, nei racconti, nella bontà dei gesti e dell’animo. Discreto e gentile, non invadente (requisito importante per chi voglia godere di un buon menù senza dover subire l’invadenza del titolare), conserva l’irruenza buona e tipica dell’uomo di mare. Come ci ha raccontato: “in nome della qualità, quelli che lavorano per me non devono mai sbagliare”. Ma veniamo al gusto: in ordine di portata abbiamo mangiato: Fusilli freschi con asparagi selvatici e gamberetti; Frittura di calamari con insalatina di rucola olive e pomodoro; fragole; pastiera e limoncello. Le portate principali sono state accompagnate da un ottimo vino bianco della casa. Niente di più semplice ed efficace. La nostra attenzione si è concentrata sui Fusilli asparagi selvatici e gamberetti. Gli asparagi, sottili e profumati provenivano dalle pendici del Monte Bulgheria. I gamberetti, appena pescati, la pasta ben cotta e il sughetto ben calibrato lasciavano al palato una sensazione di freschezza contrastata solo dal retrogusto amarognolo del prezzemolo tritato. In un’antropologia del gusto e in una prospettiva slowfood diremmo che la freschezza degli alimenti (scelti per stagione e non per necessità di menù – quindi liberamente vincolato a “ciò che Madre Terra offre) accoppiata alla “volontà” dell’uomo di determinare la propria qualità dell’offerta (aspetto primario) fanno del ristorante “Da Giggino Il Pirata” un simbolo certo del mangiar bene ma, ancora di più, della convivialità: “dato caratteristico della cultura umana e premessa “ tecnica” per l’elaborazione di significati e valori di comunicazione nei modelli di consumo e di comportamento alimentare (Montanari – Il cibo come Cultura)”.

Ristorante Pizzeria “Da Giggino Il Pirata”
Via P. Amedeo, 27 – Scario (SA) Tel. 0974 986117

mercoledì, aprile 26

zuppa di fagioli rossi di Sarconi con finocchi

Il fagiolo di Sarconi, che ha ottenuto dalla comunitá europea l’IGP (indicazione geografica tipica), viene coltivato nell'Alta Valle dell'Agri, in Basilicata, fra tanti piccoli comuni fra cui Moliterno, Sarconi, Marsico Nuovo, Viggiano.
É un prodotto che prende origine dall’antica cultura contadina lucana e da un popolo molto legato alle proprie origini che, attraverso un attento lavoro di riporduzione e utilizzando tradizionali tecniche di coltivazione, ci offre un prodotto particolare che richiama senza’altro sapori e profumi di una volta.
I terreni idonei alla coltivazione sono situati al di sopra di 500m sul livello del mare. Profondi, freschi e fertili, donano al questo fagiolo una caratteristica importante, una cottura veloce, chiamata “cottura a prima acqua”, i cui benefici sia pratici che qualitativi sono ben evidenti.
Il fagiolo di Sarconi viene utilizzato soprattuo come ingrediente nella realizzazione di minestre con verdure, zuppe e in abbinamento alla pasta fatta in casa. Noi lo abbiamo riproposto come una saporita zuppa, per esaltarne a pieno il sapore e la fragranza.

1 scalogno
1 spicchio di aglio
1/2 costa di sedano
peperoncino fresco
300 gr fagioli rossi
3 finocchi medi
passata di pomodoro
olio extra vergine di oliva
sale q.b.

Far consumare aglio, scalogno e sedano tritati finemente in olio extra vergine.Aggiungere il peperoncino e 3-4 cucchiai di passata di pomodoro.Far restringere e allungare con 1 l abbondante di acqua calda. Aggiungere ancora del sedano e i fagioli. Lessare a parte i finocchi in acqua salata. Poi insaporirli in olio extra vergine con 1 spicchio d'aglio. A cottura ultimata dei fagioli aggiungervi i finocchi e lasciare insaporire a fuoco basso.Impiattare con crostini di pane. Aggiungere una goccia di olio extra vergine e una spruzzata di peperoncino. Per i fagioli: tenere da parte dell'acqua calda da rifondere, se necessario, ai fagioli in cottura.

mercoledì, aprile 12

un’antropologia del maccherone

Il rapporto che intercorre tra i napoletani e la pasta è di forte dipendenza. Una dipendenza che quasi esclude la possibilità che tale rapporto non esista e che serve invece ad esprimere l’ambiguità che sottende al carattere popolare partenopeo. La contrapposizione natura/cultura, elemento fondante dell’identità dei gruppi umani, si risolve, a Napoli, in un eterno oscillare: tra passato e presente; dal carattere ambiguo di Pulcinella, un po’ servo un po’ no, un po’ uomo un po’ donna, alla figura dei “femminielli” donne-uomini di arcaica tradizione. Tale eterna ambiguità è ulteriormente espressa, come scrive Marino Niola in “Totem e ragù” (Pironti Editore), dalla modalità di cottura del maccherone: al dente.
A metà tra il crudo e il cotto o, se si preferisce, tra natura e cultura, il maccherone rappresenta quella possibilità tutta napoletana di essere altro, sempre, divenendo il simbolo di un’intera cultura popolare. L’al dente diviene anche, in una prospettiva antropologica, una caratteristica anarchica mal riconducibile ad un ordine di tipo binario natura/cultura – crudo/cotto e, ancora una volta, espressione di un’ambiguità pendente, tra maschile e femminile. “Sdoppiando verso il basso la categoria del cotto, è possibile al maccherone rimanere “tuosto” (caratteristica maschile per eccellenza) collocandosi così tra il crudo e il cotto, maschio e femmina, duro e molle, e configurandosi come il più crudo tra gli alimenti cotti e il più cotto tra gli alimenti crudi. La durezza relativa, conservata grazie a questa particolare cottura, consente così di non mettere in discussione l’equazione tra cultura e virilità su cui poggia l’ordine sociale e cosmico della comunità partenopea” (Niola – p. 185). Un’ambiguità ambigua, quindi, che da un lato partecipa nella “difesa” del carattere anche virile del popolo napoletano e, dall’altro contempla quella tendenza, altra, verso il femminile (il crudo – la natura): “(…) Freud, in una delle sue opere più tarde, Edipo in cucina, paragona l’indigestione da maccheroni col ragù all’unione incestuosa con la madre. Non va dimenticato che gli zitoni al ragù, conosciuti nel corso di un viaggio a Napoli, impressionarono profondamente il padre della psicanalisi, che vi scorse una particolare modalità della castrazione maschile ad opera della madre: una sorta di sanguinolento corollario dell’invidia del pene” (Niola – p. 186). La pasta, i maccheroni, ci rammenta Niola, sono strettamente legati alla figura della Mamma: figura dal carattere ambiguo, tra riproduzione e negazione della sessualità.
Assai difficile risulta per noi districarci nel tentativo di configurare un’antropologia del maccherone. Ma il Maiale Ubriaco crede comunque di poter raccontare o, quantomeno, fornire degli spunti.
Quel che è certo, per terminare il nostro discorso, è che la pasta diviene il simbolo della napoletanità. Il simbolo di un popolo che ha scelto di non vivere una sola identità, scegliendo il compromesso.

giovedì, aprile 6

paccheri al ragú


Chiamati anche "schiaffoni", rappresentavano una volta la pasta dei poveri, poiche’ bastavano pochi paccheri a riempire un piatto. Sono forse il formato di pasta piu’ tipico in campania, ma soprattutto a Napoli. I paccheri vengono spesso abbinati al ragú, tanto amato anche dal grande Edoardo de Filippo che ne parla in una sua poesia dal titolo appunto 'o rrau'.
Il vero ragú peró veniva preparato in un tegame di creta largo e basso, rimestato con la classica “cucchiarella” di legno e cotto (dulcis in fundo) su di un fornello a carbone dal mattino fino all’ora di pranzo. Questo il classico pranzo domenicale a Napoli, cucinato con pazienza dalle mamme...quanti ricordi!

500 gr paccheri
500 gr girello di manzo
2-3 costolette di maiale
1 cipolla di media grandezza
1 litro passata di pomodoro
6-7 cucchiai Olio extravergine d’oliva
½ bicchiere vino rosso
basilico
sale
Far saltare per qualche minuto la carne di manzo e di maiale in un soffritto di cipolla e olio. Aggiungere il vino rosso, la passata di pomodoro e qualche larga foglia di basilico. Salare, coprire con un coperchio e cuocere a fuoco basso per almeno 3 ore
Quando il sugo sara’ pronto unirlo ai paccheri al dente.
Spolverare con una buona manciata di parmigiano.

lunedì, aprile 3

il pastificio Garofalo


Poiche’ la pasta e’ uno dei prodotti che maggiormente rappresenta noi italiani da un punto di vista culinario e culturale, mi sembra doveroso chiamarla in causa, la cara pasta asciutta, ed aprire una parentesi su uno dei principali esponenti del settore in campania...e non solo.
Sto parlando del pastificio Garofalo, nato nel 1789 a Gragnano, alle falde del Vesuvio. Fu proprio qui che nel 1845 il Re di Napoli Ferdinando di Borbone concesse agli artigiani il privilegio di fornire la corte di tutte le paste lunghe. Da allora Gragnano diventò per tutti la “città dei maccheroni”.
A Napoli la pasta veniva peró preparata impastando la semola con i piedi ed Il re di Napoli, non contento di questo metodo di pastificazione, favorí l’introduzione di un nuovo procedimento che consisteva nell'aggiungere acqua bollente alla farina e nel sostituire al lavoro di impastatura tradizionale una macchina fatta di bronzo che imitava perfettamente il lavoro dell'uomo.
Gragnano avrebbe rappresentato fin dagli inizi un ambiente ideale per la produzione della pasta grazie alla presenza di mulini locali che fornivano la materia prima, la semola, ma anche grazie alla vicinanza del mare che favoriva una temperatura ed una umidita’ costanti favorevoli all'essiccazione della pasta, originariamente effettuata all'aperto, lungo le strade cittadine.Oggi, inutile negarlo, tutto e’ cambiato con l’arrivo della tecnologia, di nuove tecniche di lavorazione, ma credo sia rimasta intatta l'attenzione ai particolari e alle materie prime che resta decisiva per ottenere prodotti di alta qualità. Insomma per la storia, per la tradizione che ha alle spalle, per la bonta’ del prodotto e, permettetemelo, perché napoletana come me, credo sia doveroso provare, almeno una volta (e credetemi se vi dico che non sará l'ultima) la pasta di Garofalo.